domenica 27 maggio 2012

Fare presto


C’era una volta Berlusconi, il PDL, il PD a vocazione maggioritaria, la sinistra a vocazione suicida, la Lega di lotta contro i deboli e governo con i forti, il centro perchè comunque non possiamo farne a meno, che non si sa mai.
C’era un paese di cui si vaticinava l’onda lunga dell’egemonia di destra, la scomparsa delle culture critiche, la sana laicità del Papa, la modernità antica di Marchionne.
C’era il capitalismo predatorio e relazionale, il ciclo del mattone, le grandi opere come volano insostituibile di sviluppo, la competitività fondata sul costo del lavoro, le grandi banche sempre più grandi e le imprese sempre più piccole.
C’era un paese impoverito, che più di ogni altra cosa odiava ammettere la propria proprietà, e la paura, una grande paura di ogni cambiamento e del volto del diverso.
C’era un grande castello di giunchi, che il vento della crisi ha spazzato in lungo e in largo, senza trovare argini e ripari, lasciandoci infine soli con i nostri timori e rancori.
Ora siamo qui, a veder scorrazzare populismi coltivati con cura nei vasi lasciati liberi dalla ritirata della politica, mentre i fondamenti economici del vecchio mondo vacillano e si consumano senza lasciare alcuno spazio al nuovo, alla sua drammatica urgenza e alla difficoltà persino di pensarlo, dopo decenni di pensiero unico.
Eppure si deve fare presto, perchè come accade all’apice di ogni crisi si ha un solo colpo a disposizione per indirizzarne l’esito. Se lo si fallisce, si rischia di essere fuori gioco per un tempo lungo, perchè cambiano lo scenario, le prospettive, la strutturazione delle dinamiche sociali.
Semplificando, si tratta di capire che destino avrà l’Europa, e quindi l’Italia.
Un’ipotesi è che sappia rilanciarsi come destino comune dei popoli del continente, recuperando insieme la propensione ad un federalismo che superi gli stati nazionali e ad un rinnovato welfare che sappia sconfiggere la piaga della disoccupazione e di inuguaglianze vicine alla soglia di insostenibilità.
Un’altra è che esploda, restituendo a ciascuno il diritto di raccogliere i cocci devastanti di un fallimento, nell’illusione che ci sia qualcuno in grado di assorbire meglio l’urto della tempesta finanziaria.
Sulla prima ipotesi sembra essere il socialismo di lingua francese, sulla seconda, più o meno consapevolmente, l’intera Germania, dopo il recente pronunciamento anti eurobond di SPD e Grunen.
Ma Hollande non ha sponde, in un’Europa ancora egemonizzata nei suoi punti chiave dalla destra, al di la di timide aperture dettate dall’interesse nazionale di Italia e Spagna.
Per questo la sinistra italiana deve essere rapida nel movimento e chiara negli intendimenti, perchè si tratta di tornare ad esercitare un ruolo politico in Europa orientato al cambiamento.
In altre parole, si tratta di vincere le elezioni, di farlo al più presto e con un programma e un’identità nitidi, che non si perdano in dettagli comunque allo stato attuale non determinabili, ma che sappiano lanciare al paese alcuni messaggi inequivoci.
Che non c’è alcuna soluzione nazionale, e che quindi si tratta di esercitare una volta per tutte un’opzione di integrazione continentale, sul modello degli Stati Uniti d’Europa, con l’obiettivo di uguali standard nei diritti sociali, civili e nel welfare.
Che nessuno può essere lasciato indietro, e che quindi si punterà ad un mix di piani per l’occupazione e reddito di cittadinanza, finanziati gli uni e l’altro con una forte imposizione sui patrimoni, che alleggerisca al contempo il prelievo fiscale su redditi e investimenti.
Che il paese ha un bisogno vitale di cambiamento, ma che per ottenerlo deve liberarsi delle scorie della paura e del rancore, deve fare lo sforzo immane di un’ultima apertura di credito alla politica, scommettere sulla democrazia e sulla partecipazione, ricevendone in cambio un sostanziale, robusto passo indietro dell’attuale ceto dirigente dei partiti.
Si tratta di salvare il nostro futuro, di poterne di nuovo pronunciare il nome con accenti di speranza.
Può farlo solo la sinistra. Ma il tempo è prossimo a scadere.

domenica 20 maggio 2012

Nel giorno del dolore per una morte assurda


Si rimane attoniti davanti all’assassinio deliberato di una ragazza di 16 anni davanti alla porta della sua scuola. 
Si interrompe anche il flusso del ragionamento, se si pensa a quale sarebbe potuta essere la dimensione della strage causata da una bomba programmata per esplodere in quel luogo alle 07.45.
Si reagisce d’istinto, se ne parla, se ne parla, se ne parla, e poi si scende in piazza, come sempre accade all’umanità ferita.
E si cercano cause, moventi, scopi razionali, che almeno neghino l’irrompere dell’assurdo in una realtà già martoriata.
Ognuno esplora il proprio immaginario, la propria personale memoria della storia di questo paese, la propria geografia del male.
Si pensa alla mafia, perchè siamo a sud, perchè la scuola è intitolata a Morvillo Falcone, perchè arriva la carovana della legalità, perchè è la mafia che uccide in Italia.
Non è solo la mafia che uccide in Italia, ma anche il terrorismo, e torna alla mente la tragica litania delle stragi senza verità. Piazza Fontana, Brescia, Italicus, stazione di Bologna. 
E allora pensi che è proprio quello che manca, la verità, la possibilità di un dolore condiviso, in un paese che sembra ancora fermo a Pasolini, al suo Io so del 1974, se quarant’anni dopo lui è morto assassinato e noi continuiamo a non sapere, o a sapere alla sua maniera, per intuizione, per frammenti, per desiderio di trovare almeno una ragione.
Così ancora una volta tornano a circolare i fantasmi, la strage di stato, la strategia della tensione, il caos contro il cambiamento.
E tu pensi ad una ragazza di 16 anni morta davanti alla porta della sua scuola, leggi alcuni commenti, le insinuazioni da teoria del complotto, le chiamate alle armi contro il nemico nascosto, le cupole nere, e ti sale la rabbia, perchè sembra che per qualcuno non fosse nell’aria la bomba, ma il desiderio che esplodesse, per chiudere il cerchio della paranoia.
Ma poi ti torna alla mente la storia d’Italia, e scopri che anche tu ne sei prigioniero, perchè nessun tribunale ha mai saputo darti moventi, mandanti, esecutori, non ti è dato nemmeno di sapere cosa si scrivessero negli anni di piombo gli apparati dello stato, perchè in Italia il segreto di Stato è duro a morire. 
Vorresti dire attendiamo le indagini, ma poi ti scopri a sorridere di te stesso, pensando a quante indagini, quanti processi, quante teorie, quante prescrizioni e assoluzioni per mancanza di prove, quante sentenze scritte e poi cancellate.
Mille pugnalate alla memoria collettiva, che infatti è lacerata, sempre più fatta di brandelli tenuti insieme da fili consumati, divisa fra generazioni, classi sociali, luoghi della politica e della geografia, sotto uno strato sottile di quotidiana rimozione.
Allora ti addormenti, pensando che forse è proprio questo il punto. Quella bomba è un’altra scossa ad un paese che è già un’unità precaria di frammenti, unisce nel dolore ma divide nella rabbia. E a quel punto chi l’abbia collocata non conta più nulla.

venerdì 18 maggio 2012

In Italia tutto bene. E in Grecia?


In Italia tutto bene. 
Il Parlamento gioca a ruba bandiera, con la maggioranza chi fa, si disfa e si rifà, senza riuscire a dare un senso diverso dalla straniamento.
Si riaprono tombe di storie passate, mentre fantasmi mai sepolti tornano ad aggirarsi inseguendo se stessi.
Vecchie fole si dissolvono nelle nebbie padane, subito rimpiazzate da nuove storie dalla trama incerta, ma dotate del fascino del nuovo incorrotto.
Siamo talmente abituati ad aggirarci con lo sguardo incollato alla nuca del qui e dell’ora da  ignorare che intanto ad un braccio di mare di distanza si sta giocando una partita che dovrebbe riempire le nostre parole e pensieri quotidiani.
La Grecia è messa spalle al muro da chi le chiede di scegliere fra Europa e democrazia, e nulla le vale aver dato il nome ad entrambe.
Può votare l’uscita dall’euro, dichiarando ufficialmente la propria morte economica con alcuni mesi di ritardo sull’evento, o rimanere nello stato di coma assistito in cui è stata precipitata.
Le cose stanno esattamente in questi termini, ed è quindi probabile che sceglierà la prima ipotesi, provando almeno a salvare l’idea di poter decidere del proprio futuro, senza delegare a Berlino, Francoforte o Bruxelles.
Salvare un’idea d’altronde non è poco, e potrebbe essere un regalo immeritato per l’intera Europa, che continua a chiudersi nell’anatema dell’irresponsabilità ellenica, della giusta punizione, dell’esempio esemplare per chi rifiuti il rigore di conti fuori controllo.
Ciò che invece non è comprensibile è il senso di silenziosa fatalità con cui il resto del continente continua a marciare verso il baratro, fingendo di ignorare le conseguenze devastanti che la sottrazione della piccola pietra greca avrebbe sull’intero edificio comunitario.
E soprattutto non si capisce la posizione di un paese come l’Italia, che con la Spagna si candida a chiudere immediatamente il trittico mediterraneo, un minuto dopo il default greco.
Pensiamo veramente che ci salverà aver fatto la nostra professione di fede nel dogma liberista, assestando un paio di bastonate ben assestate a lavoratori e pensionati?
Il momento della responsabilità è ora, non per la Grecia, ma per l’Europa, che rischia di ripetere il fatale errore di Bush con Lehmann Brothers, ovvero ignorare l’effetto che la finanza vera, quella derivata, ha su ogni effetto del libero mercato, con la doppia aggravante di averne conoscenza e di voler trattare come neutrale scelta economica quella che è a tutti gli effetti una decisione politica cruciale.
Si vuole impegnare la parola solidarietà, e quindi affermare in positivo il comune destino dei popoli europei, o si preferisce incrociare le dita, e fissare la mappa europea con lo stesso sguardo dei 12 dell’Enola Gay davanti all’apertura di un cilindro metallico?
Io vorrei semplicemente che di questo discutesse in seduta permanente il parlamento della mia nazione, e vorrei che lo stesso facessimo nei bar e nei luoghi di lavoro. Persino nelle sedi dei partiti.
Almeno per essere pronti, per partecipare di un momento che potrà essere ricordato come storico oltre le intenzioni di chi lo propizia con la razionalità di uno sciamano del neolitico.
Per evitare che la misura della connessione con l’attualità europea siano le file improvvise davanti ai bancomat.

mercoledì 16 maggio 2012

La terra trema (parte prima)


L'Italia è un magma che ribolle sotto una crosta sempre più sottile, in un'Europa trascinata a passi larghi verso il caos.
Possiamo continuare a fingere di non vedere, tenere lo sguardo fisso all'indietro sulle immagini rassicuranti del passato.
Abbiamo ormai tanti passati da poterci permettere il lusso di aggrapparci alla memoria di quello che preferiamo.
Oppure provare a guardare in faccia il presente, come prima condizione per poter pensare un qualsiasi futuro.
Lo spettacolo è soffocante.
L'Italia è in recessione e lo sarà per alcuni anni. La disoccupazione aumenta di conseguenza, e in relazione ai giovani raggiunge percentuali da crisi sociale. La struttura produttiva del paese si sgretola quotidianamente, per assenza di consumi, di settori trainanti, di investimenti.
Siamo ricchi, ma la ricchezza sta diventando una catena dorata che trascina a fondo, se è vero che produce solo rendita e immobilismo sociale, in assenza di una politica fiscale che determini diverse dinamiche.
L'Europa, che per 60 anni ha rappresentato una garanzia di pace e una promessa misurabile di miglioramento delle condizioni di vita, si è tramutata nel rigido guardiano degli interessi del capitale, tedesco in primo luogo.
È come una pentola a pressione dallo sfiato sigillato. Regolare la fiamma non servirà a nulla. Lo scoppio è assicurato.
In questo quadro che esista una domanda di cambiamento diffusa, rabbiosa, frustrata è il minimo che ci si possa aspettare. 
È così che nascono e crescono in una notte populismi e qualunquismi di diverse matrici, ma che hanno in comune l'idea di un ripristino della sovranità popolare, anche se su basi che ne riecheggiano più o meno consapevolmente  la versione schmittiana.
L'idea che il potere politico possa promuovere d'imperio un cambiamento radicale, a patto che sia liberato dalle pastoie di un ceto politico che ha svenduto perché corrotto il diritto dei cittadini alla felicità.
È un'atmosfera pericolosa, torbida, weimariana, con le piazze virtuali che hanno preso il posto di quelle reali nell'agire la violenza politica, senza tuttavia mutarne minimamente il segno.
Si deve tuttavia avere la consapevolezza che ad una domanda confusa di cambiamento non si può opporre una sdegnata offerta di conservazione, condita con dosi omeopatiche di demagogia a uso e consumo di un popolo che si pretende bue.
Nè si possono mostrare ginocchia tremolanti e desiderio di fuga, e ancor meno spirito gregario e tentazioni di saltare il fosso.
C'è bisogno invece di politica, intesa come progetto collettivo e senso di appartenenza, di proposte credibili per uscire da una crisi che non sopporta risposte ordinarie, di un nuovo intellettuale collettivo. 
In due parole, di coraggio e credibilità.

giovedì 10 maggio 2012

Due giorni dopo il voto


La teoria insegna che è un errore attribuire un significato politico al voto amministrativo. 
Questo è quasi sempre vero, tanto più in un paese che, come l’Italia, è sospeso su mille particolarismi. 
Esistono tuttavia delle eccezioni, e questa è una di quelle. 
Ce lo suggeriva il quadro in cui si sono inserite le elezioni amministrative, caratterizzato da un governo sedicente tecnico, sostenuto da una maggioranza anomala, la cui stessa esistenza è una sconfessione del sistema politico della seconda Repubblica. 
Ce lo confermano i risultati, a partire dal forte incremento dell’astensione, per arrivare all’implosione dei due partiti che hanno informato di sè il ventennio, Lega e PDL, e dall’eccezionale affermazione del M5S, che della Terza Repubblica si candida ad essere la levatrice.
Il risultato apparentemente più significativo, ovvero la vittoria diffusa del centrosinistra, diventa invece un evento minore, come sempre accade agli scontri vinti per assenza di avversari.
L’errore più grave che si potrebbe commettere sarebbe quindi trarne il segnale di uno scontato trionfo elettorale prossimo venturo, o ancor peggio di un consenso ad una linea che preveda la conferma del sostegno al governo Monti da parte del PD.
A me sembra invece evidente che ci troviamo di fronte ad una sconfessione anticipata dell’ipotesi a cui l’intero circuito informativo e i vertici istituzionali lavorano incessantemente da almeno un anno, ovvero l’idea che il governo Monti potesse rappresentare una fase costituente di uno stabile ancoraggio al centro del sistema politico.
L’idea in altre parole che la Terza Repubblica dovesse nascere sulla normalità della Grande Coalizione e su una legge para-proporzionale che la garantisse.
Questo progetto va in pezzi perchè fondato su una miscela di arroganza, smarrimento di ogni antenna sociale e inerzia culturale, che portano a scambiare una crisi strutturale per una congiuntura negativa, da curare con la retorica e la pratica dei sacrifici.
Ma soprattutto perchè si innesta su gruppi dirigenti completamente screditati, al punto dhe l’union sacree delle forze politiche non appare dettata da senso di responsabilità e comune impegno nel risollevare il paese dalle macerie, ma dalla comunanza dei complici, dal desiderio di autotutela e salvaguardia dei propri privilegi.
O se preferite, chi vive con l’ossessione del compromesso storico, non ha compreso che la tragedia precipita inevitabilmente in farsa, se a Moro e Berlinguer sostituiamo Alfano e Bersani.
Così il Partito della Nazione, alfiere di una terza repubblica fondata sulla palude, scompare prima di presentarsi, una delle due torri crolla e l’altra barcolla vistosamente, anche se pare non rendersene conto.
Perchè, e questo è un elemento decisivo, in un sistema teoricamente bipolare, se a fronte dello schianto della destra la sinistra non avanza con altrettanta forza, significa che i problemi politici di quest’ultima sono di poco inferiori a quelli della prima, e che è il sistema stesso ad essere a rischio.
In questo senso, il governo Monti rischia di essere, come previsto, la tomba della Seconda Repubblica, senza tuttavia avere la forza di determinare la forma della terza, aprendo così la strada ad ogni soluzione.
Per questa ragione oggi il tema da porre con forza è il recupero chiaro ed immediato della dimensione del centrosinistra, unito ad un impegno ad un radicale, finanche ingeneroso, ricambio delle classi dirigenti, e alla richiesta del voto anticipato.
Le tre cose stanno insieme, perchè si tratta di restituire un indirizzo politico al paese, che vada nella direzione di un legame esplicito con l’esperienza della presidenza socialista francese, evitandole l’isolamento europeo, di evitare che il giudizio impietoso su questo ceto politico tracimi in analoga considerazione della democrazia, di risparmiare al paese  un altro anno di fallimentari ricette liberiste, le uniche note a Monti.
Temo che il cupio dissolvi del PD impedirà questa soluzione. 
In questo caso la sinistra farebbe bene a prepararsi e in fretta, perchè la Grecia, almeno in quanto a sistema politico, si farebbe immediatamente più vicina.

lunedì 7 maggio 2012

Dalla Francia alla Grecia una buona giornata


In Europa vincono le sinistre, sono sconfitti i liberisti, avanza quella che in Italia è definita antipolitica e altrove più propriamente estrema destra.
Le sinistre che vincono sono quelle che interpretano il bisogno di cambiamento dei popoli del continente, bruciano alle loro spalle i ponti di vie più o meno terze, recuperano la parola socialista nel suo significato profondo e la restituiscono a una vita diversa dal simulacro in cui era stata sepolta negli anni ’90 e ’00.
Sono le sinistre che sanno recuperare il connubio fra libertà e uguaglianza degli individui e solidarietà sociale che sta alla base del patto sociale europeo, che parlano senza timidezze di progressività fiscale e diritti civili, che mettono l’occupazione al centro delle dinamiche economiche.
Sono le sinistre che non hanno alcun dubbio sul processo di integrazione europea,ma sanno che nulla è più antieuropeista delle politiche di rigore, della Merkel e della BCE.
I liberisti sono sconfitti perchè letteralmente incompatibili con la democrazia, a meno che con questa non si voglia intendere la libertà di scegliere con quale arma essere suicidati.
Hanno governato per un trentennio, piazzato mine in ogni angolo del globo e acceso la miccia. 
Oggi vorrebbero spegnere il fuoco con la benzina, e contano di farlo commissariando governi e parlamenti. Purtroppo per loro pare che, con l’eccezione dell’Italia, il gioco stia finendo, e stia finendo con un cartellino rosso.
A destra premono infatti nuovi protagonisti, che hanno la loro bandiera in un neo-nazionalismo che nega alla radice ogni ipotesi di federalismo europeo, che sogna il ritorno alla Patria, alle sacre frontiere, all’identità fra Stato e Nazione.
Non è folklore, ma la più seria alternativa che la democrazia possa oggi offrire ad un progetto che si proponga invece di costruire gli Stati Uniti d’Europa sulla base di un patto sociale nuovamente fondato sulla piena occupazione e sul welfare.
E’ infatti chiaro a tutti che l’attuale impostazione delle politiche economiche e monetarie continentali è insostenibile sul breve, medio e lungo periodo, perlomeno nell’attuale quadro istituzionale della UE.
Il governo tedesco, che se ne fa alfiere, agisce sempre più scopertamente per interessi nazionali, alimentando in questo modo l’altrui nazionalismo, e sembra ripetere il tragico errore della Francia con i debiti di guerra della Germania dopo il primo conflitto mondiale.
Tenere ferme posizioni di principio e piccoli calcoli utilitaristici, senza comprendere che così facendo si alimentavano i peggiori demoni del sottosuolo continentale.
Ma oggi Francia e Grecia ci dicono che quei fantasmi tornano ad affiorare, eppure è alla sinistra che tocca il primo colpo. 
Hollande ha una grande responsabilità e per questo non può essere lasciato solo, nemmeno per un istante più del necessario.
Da domani è di questo che dovrà parlare la sinistra italiana.
Anche e soprattutto quella che, in quanto a socialisti, ha scambiato la Grecia per la Francia.

sabato 5 maggio 2012

Scalfari e la democrazia degli Eletti


Lo Scalfari della scorsa domenica su Repubblica, Berlusconi e Grillo hanno una cosa in comune.
Disprezzano l’intelligenza degli italiani, ridotti alla stregua di inconsapevoli burattini di se stessi.
Di Berlusconi è nota l’idea che si debba partire dalla considerazione che gli elettori siano nella loro maggioranza fermi all’età infantile, e come tali vadano trattati.
Su questo assunto ha fondato la sua fortuna di tycoon e poi di uomo politico, senza che sia peraltro possibile capire fino in fondo quanto della presunta ignoranza italica sia causa e quanto effetto dell’egemonia berlusconiana.
Grillo è un populista disgustato dal popolo, un mix di avanguardismo e tendenze totalitarie, che da un lato inneggia ad una cittadinanza attiva e omnicomprensiva che non prevede relazioni e divisioni stabili, e dall’altro ne ritiene degni solo coloro che si siano liberati dal germe ottundente e divisorio dei partiti. 
A tutti gli altri, ovvero alla grande maggioranza, toccano insulti diretti e indiretti, e comunque lo stigma, più volte ribadito, riservato agli autolesionisti e ai pazzi.
Infine Scalfari, che ancora una volta ci informa che ad avere una percezione chiara del reale e la capacità di intuire alcune soluzioni sarebbero solo poche minoranze elitarie, impossibilitate di comunicare le proprie verità perchè inesprimibili in un linguaggio comprensibile alla massa rancorosa e attratta dal populismo.
Lo stesso governo Monti, pur fatto di persone Illuminate, non riuscirebbe fino in fondo nella sua missione, che coinciderebbe con la soddisfazione delle ipotesi scalfariane, perchè intimorito dagli effetti che la rabbia montante potrebbe avere sui partiti di maggioranza, improvvisamente promossi, PDL compreso (PDL), a nuovo arco costituzionale.
Ecco quindi la soluzione. 
Una riforma elettorale un po’ tedesca e un po’ spagnola, senza premio di maggioranza, e con sbarramento nazionale al 5%, ma anche collegi molto piccoli, nessun candidato premier e divieto di coalizione. 
Detto in altre parole, un sistema che attribuisca da qui all’eternità il 100% dei seggi a chi abbia complessivamente il 60% dei voti, costringendo quel 60% all’unica possibilità del governo di coalizione. 
Se infatti in Spagna la regola recente è un governo Socialista o Popolare appoggiato dai voti di partiti regionalisti piccoli su scala nazionale, ma capaci di essere maggioritari nei propri collegi di insediamento, nell’ipotesi di Scalfari questo sarebbe impossibile, perchè lo sbarramento al 5% impedirebbe a questi ultimi l’accesso al parlamento. 
In Germania invece ad ottenere eletti sono tutti quei partiti che ottengano almeno il 5% dei voti, o 3 parlamentari eletti nei collegi uninominali, e questo determina un sistema a 4 o 5 formazioni sostanzialmente stabile, e governi di coalizione, data la difficoltà per una singola formazione di raggiungere la maggioranza assoluta dei seggi.
Ma la pluralità dei partiti, la loro relativa forza e la necessità coalizionale, nominalmente successiva al voto, ma sempre indicata come preferenza durante la campagna elettorale determina una pluralità di opzioni possibili, che sarebbe anche maggiore laddove decadesse la conventio ad exludendum verso Die Linke.
E’ quindi chiaro che il sistema spagnolo e quello tedesco si caratterizzano entrambi per la volontà di ricercare insieme un quadro che eviti l’eccessiva frammentazione del sistema politico, favorisca la governabilità e non penalizzi eccessivamente la possibile rappresentanza delle culture politiche, senza dimenticare la penalizzazione di eventuali forze antisistema.
La loro combinazione invece, così come proposta da Scalfari, determinerebbe un mostro la cui unica ratio sarebbe lasciare agli italiani una formale, assoluta libertà di voto, che il sistema elettorale si preoccuperebbe poi di forzare in un percorso obbligato, per determinare finalmente il governo degli optimates.
Che poi questo significhi mandare letteralmente al macero la volontà di circa la metà del corpo elettorale, dato che sarebbero escluse SEL, IDV e M5S dalla dimensione dei collegi e Lega dallo sbarramento nazionale, oltre a tutte le formazioni minori, pare non interessare. 
L’importante è salvare la forma della democrazia, anche e soprattutto da quelle teste vuote degli italiani.
PS: per chi pensi che quello sopra descritto sia solo il delirio da fine settimana di chi ha fondato La Repubblica negli anni ’70, gioverà ricordare che somiglia molto all’impianto proposto dalla coppia Violante-Quagliariello. Anche da questo punto di vista, il voto anticipato somiglia ogni giorno di più a un atto di salute pubblica.

martedì 1 maggio 2012

Il sonno della ragione


Un paese che si disabitui a qualsiasi forma razionale del discorso pubblico ha smarrito la democrazia prima ancora di perderla.
L’Italia ha quindi molte buone ragioni per interrogarsi sulla natura reale del proprio sistema politico, se è vero che la seconda Repubblica è vissuta sull’affermazione dell’affabulazione berlusconiana e degli pseudo-riti leghisti, e vede oggi nascere nelle sue ceneri un canovaccio comico che si spaccia ed è spacciato come monologo di governo.
Per 20 anni ogni elemento della vita collettiva è stato ridotto a favola, a materiale malleabile, centrifugato, privato di ogni aggancio con la realtà, e poi ricomposto in ogni improbabile combinazione, tanto da rendere possibile agli italiani impoverirsi giornalmente credendosi ricchi, e poi scambiare per tre anni la più grave crisi globale del dopoguerra per un temporale estivo.
Abbiamo trasformato la Padania in uno spazio geografico e la Cina in un concetto metafisico, visto gruppi dirigenti formati alle Frattocchie importare la Terza Via di Blair, mentre altri issavano il fantasma della Tatcher su uno pseudocapitalismo relazionale e clientelare.
Abbiamo trasformato la politica in un affare da salotto televisivo, ridotto il ragionamento a sorriso, confuso Zelig con Ballarò ben prima che arrivasse un comico invecchiato a prendere la scena con il mestiere e l’esperienza.
Se d’altronde il mercato è l’unica forma del vivere associato, va bene il politico-imprenditore, se produrre non conta nulla perchè ciò che importa è vendere, va bene il politico-imbonitore, se ciò che dici è indifferente perchè passa il gusto della battuta fulminante, va bene il politico-da palcoscenico.
Berlusconi è stato sotto questo profilo uno e trino, fino a quando il repertorio è finito e il prodotto si è rivelato fallato.
Ma il berlusconismo, sotto questo profilo, è ben lungi dall’essere finito, e come potrebbe essere altrimenti in un paese in cui prevale il cinismo, inteso come rifiuto di ogni verità se non condivisa, almeno accettata come tale fino a prova contraria.
Non lo è quella politica, che si forma nel rispetto delle forme e procedure della decisione, non lo è quella giudiziaria, che si forma nel processo, non lo è quella scientifica, che si forma nel consenso maggioritario della comunità preposta.
In questo brodo è possibile per chi ha ruoli pubblici dire ogni giorno anche la peggiore bestialità, e farlo in pubblico, e farlo davanti alle telecamere, per poi smentire un minuto dopo, incassando il doppio vantaggio in termini di esposizione mediatica, e senza mai pagare dazio, perchè ci sarà sempre il codazzo dei fan pronti a urlare alla strumentalizzazione e l’accoglienza tipica del così fan tutti.
In un paese normale un Grillo che si recasse a Palermo e sparasse una battuta sulla mafia studiata ad arte non per accreditarsi coi mafiosi, ma per ottenere due giorni di spazio sui media, avrebbe semplicemente finito la sua carriera politica.
Ma in un Italia abituata a vedere leghisti di periferia sgomitare in provvedimenti shock e dichiarazioni sopra ogni riga per strappare due righe di visibilità sul Corriere della Sera, e quindi una candidatura al Parlamento di Roma, o pidiellini ignoti uscire dall’anonimato con attacchi eversivi alla magistratura, e persino la sinistra indulgere talvolta al fuoco di paglia mediatico nella selezione del personale politico, in questa Italia Grillo non dimostra nient’altro che di avere ben imparato un mestiere che conosce da molti anni.
Quello che è importante è prima di tutto conquistare la scena. Poi, una volta sotto i riflettori, si deciderà il da farsi. Se poi non si avrà nulla da dire, si azzarderanno quattro smorfie e si dirà che non servono lunghe analisi, perchè non esistono problemi complessi. Al massimo, si sosterrà che quando è il problema è complesso decidere non spetta a chi è sul palco, perchè i problemi complessi sono un patrimonio di tutti, altrimenti non si chiamerebbe democrazia.
E avanti così, fino alla prossima battuta, che creerà il prossimo scandalo. 
Si preoccupino gli altri di annoiare il pubblico fra uno sketch e l’altro.