sabato 28 aprile 2012

Un parcheggio torna piazza. La civiltà avanza.


Io sono di parte. 
Sono abituato a misurare il livello di civiltà di una città dall’estensione delle sue ZTL. L’unico, vero motivo che mi spinge a frequentare il centro storico di Ravenna è poter girare a piedi senza il rischio di incontrare un’auto. 
Quando mi capita di incontrarne una, sia anche una volante di polizia, provo un senso di straniamento.
Dell’estensione dell’area pedonalizzata mi vanto da sempre con amici e conoscenti di ogni altra città che non abbia una simile fortuna.
Sono felice che lo spazio libero per passeggiare a naso in su non sia limitato ai parchi, ma si estenda a ciò che l’uomo ha edificato.
In altre parole, quando finalmente Ravenna avrà una piazza in più e un parcheggio in meno per me sarà una bellissima giornata, e in quella piazza andrò a festeggiare.
Dico anche che già mi piace, perchè amo il dibattito pigro e appassionato sull’estetica, quando si svolge al bar o nell’accademia, ma non lo sopporto quando contagia la politica, e trasforma ogni consigliere in architetto.
Sarà perchè ricordo ore di dibattito su forma, volume e colore di ogni pietra del selciato di Piazza del Popolo, che ora appare a tutti bella ed eterna nella sua veste rinnovata, semplicemente per il fatto di esserci ed essere la piazza della nostra città.
E poi una piazza è una piazza e non ha bisogno di altri motivi per chiamarsi tale. 
E’ il bacino naturale che accoglie il fluire del tempo dell’uomo, lo spazio in cui nasce ogni popolo, lo spirito della liberazione alla fine dei canali chiusi delle strade. 
Ci si finisce sempre e si riprende fiato. 
Poi tanto meglio se sarà viva, accogliente, rumorosa, piena di bar, locali e musica, magari fino a tarda notte. 
Ma questo viene dopo.
Intanto si tratterà di convincere, come sempre, i commercianti, che talvolta percepiscono se stessi come stazioni di servizio, che tutti vogliamo che in centro ci si arrivi, più e meglio di ora, ma che questo c’entra poco, per non dire nulla con la possibilità di farlo in auto.
La città è piccola, i parcheggi esistono a distanze ragionevoli, è possibile pensare ad un servizio di trasporto pubblico diverso o più intenso, come già sperimentato in passato, o a forme di biglietto calmierato per brevi soste nei parcheggi privati.
Ma questa è l’extrema ratio, perchè dovrebbe essere chiaro che la sfida del centro storico si gioca sulla parola vita, sulla possibilità che continui ad essere lo spazio migliore in cui perdere il proprio tempo, e non un luogo del commercio eat-and-run.
E comunque la città più visitata del mondo continua a essere Venezia.

martedì 24 aprile 2012

Cartolina dalla Francia


In Francia ha vinto Hollande, in Francia ha vinto Marie Le Pen. 
Come a dire che il vento socialista spazza una terra riarsa dove cresce la malapianta dell’estremismo nero.
Si affermano insieme la più credibile alternativa al governo in carica e il più estremo atto di rivolta contro il sistema politico e istituzionale.
Per questo io credo che Hollande vincerà, e che pecchino di pressapochismo i commentatori che improvvisano somme aritmetiche fra i voti di Sarkozy e del FN al secondo turno, come se una superficiale qualifica di destra accomunasse due mondi divisi dal presente più ancora che da un passato di reciproca estraneità.
Per questo credo che il PS avrà davanti a sè fin da subito una responsabilità ben più grave che tranquillizzare i mercati finanziari.
Si tratta di riportare la Francia al cuore dell’Europa, perchè l’Europa possa tornare nel cuore della Francia, dove Francia è oggi più che mai sineddoche di ciò che scuote l’intero continente.
Il FN parla la lingua che conosce, quella del rifiuto dell’immigrazione e del meticciato, della chiusura dei confini sacri della patria, del populismo anti-istituzionale, ma anche della negazione dell’Europa delle banche e della moneta unica, se non dell’Europa tout court.
Incassa il voto degli sconfitti della globalizzazione, dei profughi in patria, di operai che furono ceto medio e di un ceto medio piegato dalla crisi.
E’ il voto della campagna e delle periferie, della provincia sterminata di un’Europa che non sarà mai Metropoli, di spazi che il trentennio liberista ha reso vuoti e che ora sono a perdere.
E’ il mondo che Melenchon avrebbe dovuto riportare alla sinistra. Non ha funzionato. Troppo di sistema Melenchon, troppo dentro ai giochi, troppo buono per chi vuole odiare, almeno per l’attimo di un voto nell’urna. Mandare un vaffanculo, diremmo noi in Italia.
Marie Le Pen è fuori e incassa. Può dire che l’Euro è una sciagura, che Goldman Sachs governa Italia e Grecia con i suoi commissari, che la Francia deve recuperare la sua piena sovranità nazionale, economica e culturale. 
Può dirlo perchè, come diceva il padre, non è di destra, nè di sinistra, ma con il popolo, e il popolo oggi è ferito.
Se la Francia fosse Italia, parleremmo di antipolitica e di populismo.
Ora quindi tocca a Hollande dimostrare che la politica nella sua accezione di sinistra esiste e può trovare la forza di spezzare le unghie del capitalismo finanziario, prima che questo resusciti i peggiori fantasmi della nostra storia.
Lo deve a noi, che crediamo nell’Europa come antidoto a piccole patrie funeree, che ci vogliamo aperti all’altro, che crediamo nel meticciato e non nelle mummie delle identità nazionali.
Ma che sappiamo anche che minuto dopo minuto la nostra Europa si confonde con la BCE, e la BCE con la Germania, e la Germania con la Merkel, e la Merkel con la crisi, in un gioco di nebbie e di rimandi che lascia ognuno solo con la sua rabbia e lo sguardo alla ricerca di una bandiera famigliare. 
Quella bandiera è stata nei momenti più bui quella della nazione, ma c’è stata una volta in cui proprio la Francia seppe iscriverci tre parole meravigliose. Libertè, Egalitè, Fraternitè.
Le riprenda Hollande, torni a iscriverle sulla bandiera europea. 
Noi, che ne siamo figli, saremo tutti con lui.

domenica 22 aprile 2012

Se il fiume monta costruisci argini, non dighe.


A sinistra c’è chi inizia ogni suo intervento ricordando quanto dell’attuale, difficilissimo stato dell’economia e della finanza pubblica sia responsabilità esclusiva del governo Berlusconi.
Benissimo, concordiamo tutti, forse, ma non ci salverà, e non serviranno a nulla i lamenti postumi sulla fragilità della memoria degli italiani, sulle responsabilità dell’antipolitica, sul complotto dei poteri forti.
La democrazia contrae i tempi del giudizio, si ferma sul presente, guarda al passato prossimo e talvolta al futuro immediato.
Il passato prossimo è il governo Monti di salvezza nazionale, il presente sarà il governo Monti di lacrime, sangue, tasse e ricatti, il futuro quello che le forze politiche sapranno disegnare con quel residuo di credibilità che gli rimane.
Perchè non c’è ormai alcun dubbio che quella in cui ci siamo con passione infilati sia una spirale recessiva, che le politiche in atto e quelle minacciate alimenteranno ulteriormente, trascinando il paese verso il 2013 in un crescendo di disoccupazione, spread e disperazione sociale.
Lo dico senza alcuno spirito di Cassandra, ma semplicemente basandomi sulle previsioni già messe nero su bianco dallo stesso governo, per non parlare di quelle ben peggiori del FMI.
Nessuno faccia finta di stupirsi quindi se proposte attualmente gettate nel mucchio delle provocazioni populiste, come l’uscita dall’Euro o il default dichiarato, acquisiranno peso e sostanza politica nell’opinione pubblica, seguendo direttamente il ritmo in crescendo della crisi.
Potrà accadere per inerzia, con le principali forze politiche impegnate a difendere il fortino dell’austerità e del rigore, e allora sarà un problema, perchè acquisirà il sapore della rivolta cieca, della protesta rancorosa sempre più disponibile a qualsiasi salto nel buio.
Oppure potrà trovare un argine in una sinistra che sappia ricomporsi in un progetto di governo e ritrovare nell’uguaglianza e nello sviluppo i termini di salvaguardia e rilancio della democrazia.
Attualmente siamo molto lontani dall’obiettivo, se è vero che i vertici del PD esitano a definire una proposta di alleanze e persistono nella difesa a oltranza di un governo che loro stessi, a mezza bocca e nei quotidiani conciliaboli, non esitano a definire un totale fallimento.
Li frena come sempre la tattica, il timore di rompere equilibri precari, l’idea tanto radicata, quanto storicamente fallimentare, che i sacrifici preparino sempre la strada ad un radioso avvenire o alla remissione dei peccati.
Il resto della sinistra intanto rischia di incartarsi fra necessità di non divaricare oltre misura lo spazio che la separa dal PD, e l’oggettività di un governo che meriterebbe la più forte e radicale delle opposizioni, per le sue azioni, le sue parole, la sua cultura ideologica, il suo orientamento strategico.
Il rischio è che di questo passo, e stante il clima di antipolitica dilagante nel paese, un accordo forzato all’ultimo minuto, magari compreso nell’illusione di un campo eccessivamente largo e dal profilo indefinito, incapace di esprimersi con nettezza sull’esperienza del governo Monti, apra lo spazio ad una contesa fra sistema e anti-sistema, anzichè, come dovrebbe essere proprio in questa fase, fra sinistra e destra.
Come se ne esce?
Io giuro che continuerò a pensarci, ma bisognerebbe essere in tanti.
Intanto escono i risultati del primo turno delle elezioni francesi. Diciamo che è andata bene e ci stringiamo tutti attorno a Hollande. Ma i problemi ci sono e si vedono tutti.

venerdì 20 aprile 2012

Ancora su Grillo


Nell’eterna giostra della spasmodica ansia di novità che agita la politica italiana il nuovo topos è Grillo.
Corteggiato, invidiato, amato, odiato, ma finalmente sulla bocca di tutti, inseguito da inchieste giornalistiche, spalmato in ogni angolo della rete.
Lo merita?
Probabilmente no, se il metro del giudizio è la razionalità della proposta politica, la sua capacità di tradursi in ipotesi di governo poggiate in almeno un punto sulla realtà.
Certamente si, se accettiamo la regola democratica per cui il valore di un’opinione consegue direttamente dalla sua capacità di catturare consenso.
Consenso, certamente, Grillo ne ha, al punto da meritare un confronto diretto sulle proposte che avanza, e non l’insulto che replica all’insulto o l’esorcismo dell’antipolitica, poco credibile peraltro in un paese che ha chiamato statista fino a ieri Umberto Bossi.
Cominciando dalla sgombrare il campo da ogni equivoco.
Il M5S è un partito, ha un leader indiscusso e indiscutibile, e una narrazione politica capace di riunire in un disegno coerente suggestioni apparentemente eterogenee, sintetizzabili nell’idea che l’Italia sia un paese finito, perchè corrotto nel midollo da un ceto politico indecente.
In questo è molto simile alla Lega delle origini, con la differenza marginale di collocare il luogo immaginario della possibile salvezza non in un territorio storico, il Nord, ma in uno immaginario, la Rete, il circolo dei puri.
Come la Lega delle origini unisce individualismo esasperato, che si riverbera anche nell’ostilità che diventa divieto per qualsiasi forma di organizzazione intermedia, e suggestione comunitaria.
Come la Lega delle origini, e in questo è simile ad ogni movimento autoritario, rifiuta la complessità, interpretata come ipostasi della casta e della sua volontà di imporre la propria mediazione fra popolo e esercizio della sovranità.
Come la Lega delle origini nasce in un contesto di crisi latente della politica, ma si afferma quando questa si traduce in crisi istituzionale alimentata da un quadro economico negativo.
E si alimenta nel conformismo del sistema politico ufficiale, incapace di trattenere a fare suo qualsiasi elemento di novità, di uscire dalla ripetizione di formule ossificate, di comprendere che quando la parola responsabilità si traduce in immutabilità finisce per mutarsi nel suo contrario.
Se infatti a Grillo si possono lasciare insulti e volgarità, non è altrettanto chiaro perchè si debba concedergli di essere l’unico a porre il tema del radicale cambiamento della classe politica, a denunciare il sostanziale fallimento di una classe politica che è, a torto o a ragione, identificata con lo stato di inedia del paese, e che quindi deve essere mandata a casa, perchè questa è la precondizione del recupero di credibilità della politica.
Lo dico avendo ben chiaro quel che Grillo finge placidamente di ignorare, ovvero che l’Italia ha un sistema di potere e relazioni tale che nemmeno la più totale palingenesi della classe politica di ogni livello potrà scalfire.
Allo stesso modo è incomprensibile perchè debba essere abbandonata persino la riflessione su qualsiasi tema possa apparire eterodosso, se non si vuole assumerne la rappresentanza, quando dovrebbe essere evidente che non può esistere ortodossia nello sconvolgimento globale in atto.
Così se Grillo propone come una qualsiasi gag da palcoscenico l’uscita dall’euro e il default del paese, è incredibile che nessuna forza politica si ponga seriamente il problema aperto della palese insostenibilità dell’attuale struttura monetaria e finanziaria dell’Unione Europea e ne faccia materia di discussione, mentre il Parlamento si beve fiscal compact e pareggio di bilancio costituzionale come se fossero acquazzoni primaverili.
Per finire, Grillo non è un fascista. 
E’ un qualunquista, uno spacciatore di fole, una parte del problema ammantata di soluzioni. 
E’ un congelatore di energie, un oggettivo ostacolo a qualsiasi progetto di cambiamento democratico. 
Ma un fascista no, e come tutti gli errori è inutile ripeterlo.

lunedì 16 aprile 2012

Antipolitica


Dicono che quel bell’uomo un po’ abbronzato che siede alla Casa Bianca non amasse particolarmente il governo Berlusconi.
Dicono anche che quando quest’ultimo ha tolto il disturbo, sostituito da un signore mai eletto, nominato il giorno prima senatore a vita, sostenuto da una maggioranza del tutto diversa da quella uscita dalle urne, senza chiarezza nè sul mandato politico, nè sul tempo a disposizione, l’amministrazione americana sia stata più perplessa che soddisfatta.
La perplessità derivava dal semplice fatto che a quanto pare gli statunitensi continuino a considerare la democrazia una cosa seria e positiva, anche se non per tutti, e che faticassero a coglierne i segni nelle ultime dinamiche della politica italiana.
A questo si potrebbe aggiungere che abdicare ad un governo tanto feroce quanto inefficace nel suo rigore ideologico, consegnarli le chiavi di scelte decisive in una fase delicatissima e chiamarsi fuori, a dipanare la tela di Penelope delle riforme elettorali e del finanziamento pubblico a se stessi, non è probabilmente il modo migliore di erigere barriere invalicabili al montare dell’antipolitica.
Se poi ci mettiamo la rincorsa pluriennale a strizzare l’occhio ai fustigatori della casta, di cui chiunque faccia politica pare ormai convinto di far parte, e lustri di diseducazione civica di massa nel rapporto con le procure, per cui un avviso di garanzia, indipendentemente dal reato contestato, è un abuso o una condanna senza appello, il gioco è fatto ed è pure scoperto.
Ciò che resta dei partiti si è chiuso nell’angolo, l’ha trovato comodo, e ora protesta i pericoli del populismo. Che sono, per inciso, tutti reali, salvo che i populismi non si affermano mai per forza propria, ma sempre per inerzia del sistema che li genera e ospita.
Sono parassiti che si nutrono dell’assenza di soluzioni praticabili e di una classe dirigente vissuta come tale, di ascensori sociali che funzionano solo verso il basso, di corpi intermedi che diventano corpi sospesi, insieme impotenti e distaccati.
Sono il sintomo dello sfascio di un sistema di relazioni sociali, che avviene senza la forza di produrre una rivoluzione, ma che se contrastato fino a che ancora le forme della democrazia e delle istituzioni hanno un valore può essere arrestato, se interpretato come necessità reale di cambiamento.
Certo è che se si continua a riproporre un ceto politico in replica, si ignora l’esito di referendum votati dalla maggioranza del corpo elettorale, si da l’impressione di voler sottrarre alla sovranità popolare anche la scelta del governo, si certifica ogni giorno la propria inutilità riducendosi a portantina dei Tecnici, non vale poi molto intonare l’esorcismo dell’antipolitica.
Che a me comunque, per dirla col suo linguaggio, fa decisamente schifo.

sabato 14 aprile 2012

Settimana da panico. Ma parliamo di Vendola.


Si potrebbe parlare di un governo il cui manicheismo ideologico è sconfessato dai fatti giorno dopo giorno, con i dati economici che scolpiscono la manifesta assurdità di una politica di rigore in tempo di crisi, accelerando l’urgenza di un’alternativa.
Oppure della Lega e dei suoi intrecci, buoni per un b-movie di scarsa qualità, raccontati dai media come la lotta epica fra le scope di Bobo Maroni e le fatture del Cerchio Magico, quando invece dovrebbero essere prese per quello che sono, l’ultimo tentativo di restare a galla di un ceto politico miserabile, che ha sparso la nebbia dell’intolleranza per godere al suo riparo di privilegi piccoli e grandi.
Si potrebbe anche fare il passaggio successivo e analizzare la forza, quasi la violenza, della nuova tappa dell’attacco ai partiti, che andrebbero aiutati a salvarsi da se stessi da chiunque abbia a cuore la salute, se non la salvaguardia della democrazia, e che invece sono spinti giorno dopo giorno sulla strada di un patto faustiano che salva un ceto politico mummificato e replicante, in cambio dell’eutanasia della politica.
Mi interesserebbe anche chiedere a chi pensa che lo schema ABC sia una nuova, virtuosa forma di compromesso storico di leggere la rassegna stampa ravennate dell’ultima settimana, che ha visto tutto il centro-destra locale approfittare della tragica fine di un ragazzo tunisino, morto dopo aver forzato due posti di blocco per un proiettile sparato da un carabiniere, per rilanciare toni da crociata e da pogrom.
Invece a sinistra tocca sentirsi interrogare su Nichi Vendola e sulla catena di indagini che prova a stringerlo nella quarantena degli inquisiti, a colpire il simbolo della buona politica che si fa governo per alimentare il mantra del sono tutti uguali.
Invece no, non siamo tutti uguali.
Non lo siamo nemmeno nelle accuse, se è vero che mentre la Lombardia è decimata da inchieste che parlano di tangenti e sottrazione di denaro pubblico, Vendola è accusato di aver favorito nemmeno la nomina a primario del miglior medico in circolazione, ma la sua sola possibilità di partecipare ad un concorso. Cosa che qualcuno potrebbe scambiare per dovere di buon governo.
Non lo siamo perchè non gridiamo al complotto, ma al rispetto della magistratura, anche davanti al caso incredibile di indagine su un reato che si dichiara sin d’ora ipotizzabile solo in caso di sentenza sfavorevole alla Regione Puglia in una causa ancora pendente. Suona contorto, eppure ho semplificato.
Non lo siamo perchè, a proposito del rapporto fra partiti e denari, dimostriamo ogni giorno da anni come sia possibile fare politica con un grammo di finanziamenti pubblici, se si possiedono curiosità e passione, ma non ci uniamo per questo al coro di chi pensa che questa dovrebbe essere la regola, perchè misuriamo quotidianamente quanto sia difficile stare in campo senza alcuna risorsa, se l’ambizione è veramente quella di cambiare il paese, e non di esserne soltanto il sussurro critico e intermittente.
Poi rimane un problema enorme, che in questo paese sta diventando una metastasi, ed è la possibilità per la politica di assumersi liberamente responsabilità di scelta, sciolta non dal controllo di legalità, che sempre spetta alla magistratura, ma dal timor panico di un errore che possa dare appiglio ad un’inchiesta.
Perchè questo porta alla paralisi degli onesti, per i quali un avviso di garanzia è una condanna alla morte politica, e al volo libero dei corrotti, per i quali è invece una medaglia, nella consapevolezza che se in un piccolo errore si può cadere, tanto vale scegliere coscientemente un vero crimine.
Lo dico perchè nel leggere le imputazioni del caso Miulli, chiunque abbia un briciolo di esperienza amministrativa trema, rivedendo i tanti casi simili da lui stesso attraversati, ogni volta che si è chiamati a scegliere su contenziosi aperti.
Se siamo tutti uguali, se la Lombardia è come la Puglia, se un normale contenzioso amministrativo diventa un caso penale, al pari di ciò che penale è senza ombra di dubbio, se la stampa asseconda la discesa della notte che rende indistinguibili colori diversi, allora non sarà impossibile governare questo paese, e nemmeno urlare la propria opposizione.
Ma diventerà ancor più difficile cambiarlo.

martedì 10 aprile 2012

A Ravenna un ragazzo è morto di proiettile


Io odio non aver nulla da dire, quanto dire non aver nulla da poter fare.
Sarà per questo che mi sento a disagio da 48 ore, da quando nella mia città è morto un ragazzo di 27 anni, per un colpo di arma da fuoco sparato da un carabiniere in circostanze che, a quanto si legge, potevano persino giustificarlo.
Giustificare lo sparo, intendo, non il morto, perchè, io credo, non c’è nulla di giusto, nè di comprensibile nel morire ammazzati a 27 anni.
Il giorno dopo alcune decine di tunisini, compatrioti della vittima, hanno manifestato nella piazza centrale di Ravenna. Ammazzato da un carabiniere, scrivevano sui loro cartelli.
Molti si sono indignati. 
La destra pubblicamente, tanti altri, ne sono certo, in silenzio o sulla rete. 
Si sono indignati perche il morto era un pregiudicato, perchè era in fuga da una volante, perchè non si manifesta a favore di un delinquente.
E subito in qualcuno è scattato il riflesso condizionato. 
Io sto con i carabinieri, come se il problema fosse quello dello schieramento, quando invece sarebbe semplicemente necessario il rispetto. 
Quello di chi ha tutto il diritto di esprimere l’emozione e il dolore per la morte di un amico, e forse di uno sconosciuto, morto in circostanze tali da rendere comprensibili anche toni che non lo sarebbero in condizioni normali.
Quello delle forze dell’ordine, che non meritano di essere trascinate nel gioco della solidarietà pelosa, quando evidentemente ritengono solo di aver fatto il proprio dovere, di può far parte anche la tragedia di un errore di valutazione.
Quello della magistratura, che sola potrà e dovrà dirci con certezza cosa sia successo in questa notte di Pasqua.
La destra ravennate farebbe invece bene a tacere, perchè ha già detto sciocchezze a sufficienza, come spesso capita a chi vuole forzare la realtà nei propri schemi ristretti di propaganda.
Ha parlato di sparatoria dove c’era, ci auguriamo, un colpo male assestato partito da un’arma di ordinanza. 
Ha voluto collegare sulla sola base di un collegamento etnico che puzza di razzismo un ragazzo che da anni viveva in Italia al gruppo dei tunisini provvisti di permesso umanitario. 
Ha gridato al far west per una fuga da un ordinario controllo di polizia, seguito da diverse infrazioni al codice stradale. 
Ha fatto quello che sa fare meglio. Agitare a caso e con fragore la bandiera della paura.
Il centrosinistra di governo dovrebbe infine riflettere. Sui tempi innanzitutto, perchè abbandonare alla speculazione politica per due giorni interi una vicenda come questa, senza alcun intervento chiaro che provi ad orientare l’opinione pubblica è incomprensibile.
E poi su cosa si agiti nel profondo di una città che sarà pure ultramedagliata per il proprio civismo, ma che da molti, troppi segni di insofferenza, di stanchezza, di desiderio inconfesso di chiusura, davanti ai quali forse il mantra del tutto va bene comincia a essere insufficiente. Bisogna uscire, capire, governare. 
Un tempo si sarebbe detto fare politica.

venerdì 6 aprile 2012

Triste fine di un uomo in canottiera


Lo confesso. Il sipario che cala tra i fischi su Umberto Bossi mi suscita tristezza e pena, come quella che può provocare la fine ingloriosa di un illusionista ormai troppo vecchio per i suoi trucchi.
Di trucchi la Lega d’altra parte ha sempre vissuto, della capacità speculare e complementare a quella berlusconiana di raccontare e far vivere un mondo inesistente, di costruire se stessa su immagini d’accatto sotto le quali nascondere la prosaica realtà di affarucci, miserie e cialtronerie.
Erano le mille leghe degli esordi, quelle dei nomi dei paesi cambiati a spray nelle antiche forme dialettali, dell’indipendentismo antiromano, schiacciate dalla campagna d’annessione bossiana.
Poi ci furono gli anni gloriosi del cappio in parlamento, di Roma ladrona, del celodurismo, che nel retro vedeva i maggiorenti leghisti pretendere la propria parte della maxitangente, con la spregiudicatezza del neofita, spavaldo nel desiderio di non essere da meno.
Seguì la stagione dell’antiberlusconismo, l’invenzione della Padania, i celti, le ampolle, il dio Po e i riti pagani, il parlamento del Nord, con tanto di elezioni. Non ricordo chi guidasse Caccia e Pesca Padana, ma esisteva.
Senza dimenticare il desiderio di scimmiottare i partiti antichi, quelli delle feste, della militanza, delle sezioni, fino al corollario di sindacato, cooperative, una banca. 
La Lega non ebbe bisogno di avere una banca. 
Se ne costruì una, che fallì miseramente, trascinando con sè i risparmi dei militanti, e soprattutto aprendo le porte del ritorno alla ricca casa berlusconiana, con la virata a destra che la portò a divenire un orrendo impasto di razzismo, fondamentalismo e particolarismo virulento.
Bossi nel frattempo usciva di scena, lasciando il posto ad un simulacro esibito come un totem minaccioso dalla Famiglia contro i nemici interni, non prima di averne venduto le spoglie a Berlusconi, che i voti leghisti, costruiti a colpi di xenofobia urlata e praticata, utilizzerà per costruire la propria impunità.
E finiamo così, con le dimissioni di un uomo che dopo aver costruito un partito di carta, le cui fortune elettorali hanno coinciso per due decenni con la capacità di incarnare la peggiore moda del momento, si ritrova a discutere di come il figlio l’abbia messo nel sacco, fregandolo prima sulla laurea e poi sui soldi, circondato da un codazzo di comparse da televisione di provincia, occasionalmente promossi a classe dirigente del paese che disprezzano.
Con Bossi esce di scena la Seconda Repubblica, che in fin dei conti sui suoi furori era nata, prima di germogliare nel catodo berlusconiano, ovvero l’idea che il futuro di un paese si possa costruire in un frullato di slogan buoni per la televisione, toni urlati, messinscene mediatiche, a nascondere la costruzione opaca di piccole e grandi fortune private.
Il risultato è sotto i nostri occhi, dopo venti anni di distruzione sistematica della possibilità di costruire e far emergere una classe dirigente vagamente degna di questo nome.
Con il lascito finale di un governo di ombre incarnate, cresciute negli interstizi del sistema, improvvisate in ruoli non propri e alimentate dall’ideologia algida dell’accademia, pronte al comando in un paese svuotato.
Indeciso oggi se chiedersi perchè sia giusto licenziare per ingiustificato motivo o perchè abbia dovuto pagare con il proprio denaro la fuoriserie di un Bossi junior.

martedì 3 aprile 2012

Ravenna non vive di notte


Ravenna è una città che spesso sembra vivere di distanze, e fra queste una delle più larghe è quella fra il pensiero e la sua realizzazione, fra la realtà e la sua percezione, che comporta fra l’altro nel dibattito pubblico l’eterno ritorno dell’identico.
Eccoci quindi di nuovo qui a commentare la chiusura anticipata di un evento culturale a mezzo volante dei carabinieri, certamente sollecitata nell’azione da numerose telefonate di cittadini affezionati al loro riposo del venerdi sera, ore 22.
In parallelo, chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il pensiero si chiede come questo sia possibile in una città che a furor di popolo, o per meglio dire della sua rappresentanza, si candida ad essere per un intero anno capitale europea della cultura nel 2019, vale a dire domani.
Lo stesso chiunque si chiede inoltre come questo si concili con la vocazione turistica del territorio, e allo stesso tempo con la volontà reiterata di rendere o mantenere vivo il centro storico.
E non riesce a darsi risposta.
Perchè non c’è nulla di illecito nel voler essere una città innamorata del proprio silenzio, sonnolenta, chiusa in un volontario coprifuoco. Solo non bisogna pensare che molti vorranno condividere con noi le nostre notti deserte, o lamentarsi di essere ancora ricordati e visitati soltanto per opere sopravvissute a due millenni.
Ricordandosi comunque che anche con le peggiori intenzioni, aspetto ancora di capire come sia possibile che alle ore 22 il mio diritto di socialità, esercitato a cavallo fra la pubblica via e un pubblico esercizio, debba essere meno tutelato dell’altrui diritto al riposo, e sulla base di quale principio le forze dell’ordine intervengano in presenza di regolamenti comunali che rendono  del tutto lecito l’evento in corso.
Questa non è una domanda oziosa, perchè ha a che fare con la trasparenza nel governo di un territorio, che è decisiva per indirizzare gli investimenti economici.
Qualsiasi operatore ha diritto di sapere anticipatamente e con chiarezza cosa sia possibile fare o non fare nella nostra città e con quali limiti, senza doverlo scoprire dai lampeggianti di una volante.
Dico l’ovvio, ma evidentemente è necessario ripeterlo.
Non credo inoltre sia automatico che il centro storico debba essere necessariamente il luogo vocato alla cita notturna, tanto più in una città che non ha una vera tradizione in tal senso.
Sono tuttavia altrettanto convinto che non possa esistere un territorio che punti sul turismo senza un’adeguata risposta alla richiesta di divertimento, prima di tutto dei suoi stessi residenti.
Occorre quindi che rapidamente e una volta per tutte chi ne ha la responsabilità politica chiarisca quale sia l’ambito della nostra città in cui si debba indirizzare chi desideri investire nel settore.
Io personalmente sono convinto da anni che debba essere la Darsena, proprio per la sua qualità di nuova area urbana, libera dalla stratificazione di aspettative conflittuali.
Capisco tuttavia che in molti non si vogliano arrendere all’idea di dichiarare il centro storico un quartiere dormitorio a vocazione diurna commerciale.
Bisognerebbe parlarne pubblicamente, in spazi larghi, senza pensare che la cosa possa ridursi ai “portatori di interesse”, residenti delle 4 vie interessate e frequentatori abituali di locali serali.
Credo infatti che la vera discriminante sulla candidatura della città a capitale europea della cultura passi di qui, molto più che da mille workshop e open call.
Vogliamo una città aperta 24 ore al giorno a flussi di creatività anche maldestri, profani, potenzialmente rumorosi, o pensiamo ad una fotografia di gruppo di ciò che si realizza nei luoghi convenzionali?
Vogliamo scommettere sul nostro desiderio di cambiamento, magari in direzioni inaspettate, o inseguire l’occasione di una nuova pennellata di cemento all’esistente?
Vogliamo infine candidarci ad essere l’unica capitale diurna della cultura, o affinare la nostra tolleranza, se non la nostra curiosità, spingendola oltre i confini delle nostre finestre e delle 10 PM?
Ecco, di questo dovremmo un po’ occuparci nei prossimi mesi.
Poi, o forse anche prima, toccherà interessarci anche dei nostri lidi.