domenica 19 febbraio 2012

Noi non siamo la Grecia


In Italia la classe politica è autorevole, rispettata, immune dalla tentazione di svendere la dignità del paese in cambio della propria sopravvivenza.
Da noi i Referendum si fanno e si rispettano e non potrebbe mai accadere che la sovranità popolare venga esorcizzata da accordi fra potere politico ed economico.
La nostra economia è solida, in piena fase espansiva, equilibrata e fondata su aziende dinamiche e prive di qualsiasi rendita di posizione o di settore.
Abbiamo uno stato sociale forte, inclusivo, universale, che tutela il diritto di ogni cittadino ad una vita libera e autonoma.
Noi non spendiamo miliardi in armamenti in piena fase recessiva, nè in guerre vere e immaginate, che la nostra Costituzione ripudia.
Non siamo un paese del Sud, portato per natura se non per vocazione ad essere attraversato dalle culture e dalle migrazioni.
Non si evadono le tasse in Italia, nè è possibile una corruzione endemica, capillare, radicata.
Rispettiamo il lavoro, i suoi diritti e la sua dignità, e nemmeno per un attimo potremmo pensare di scaricare il peso della crisi economica sulle spalle dei più deboli.
Abbiamo un rispetto del nostro ambiente quasi sacro, che renderebbe impossibile trasformare le nostre città in appendici della speculazione edilizia.
Investiamo in ricerca, innovazione, formazione, tanto da essere un punto di riferimento per ogni investimento internazionale.
Non si vedrà mai nelle nostre piazze un vecchio partigiano, un artista, una voce libera soffocata dal fumo dei lacrimogeni.
Ne’ naturalmente potremmo accettare che un giorno piovesse sulle nostre teste un governo privo di legittimazione popolare, accettato dal Parlamento solo per vergogna del proprio discredito.
E’ per questo che siamo liberi dalla speculazione finanziaria globale, protagonisti di una nuova Europa, capaci di impartire lezioni al mondo.
Prima fra queste che non siamo la Grecia, ma proprio per questo riteniamo inaccettabile che un popolo d’Europa possa essere schiacciato, umiliato, sbandierato come un trofeo macabro da chi si era impegnato ad essergli fratello.
Perchè se muore la democrazia ad Atene, o se le sopravvive il suo fantasma, scopriremo presto che Roma non è lontana, nè lo sono Parigi e Berlino.
Forse è difficile da capire, perchè non siamo la Grecia, anzi, come detto, ne siamo molto lontani.
Perchè altrimenti, se così non fosse, sembreremmo soltanto privi di coscienza. 
Incoscienti, appunto.

domenica 12 febbraio 2012

A proposito di riforme elettorali (diciamo che è uno sfogo)


Ci risiamo. 
Il sistema politico italiano, per molte ragioni complesse e quindi discutibili, torna al punto 0 della credibilità e immediatamente i principali attori del dramma individuano i responsabili.
Non loro stessi naturalmente, che con una dote impressionante di risorse, relazioni, visibilità, potere non hanno saputo fare nulla di meglio che ingombrare le istituzioni di comparse, lestofanti, opportunisti, faccendieri, yes-men senza altra arte nè parte che una fedeltà tanto incondizionata da rasentare spesso la complicità. 
Non loro stessi, che hanno reso impronunciabile la parola partito, tramutata in sinonimo di conventicola, caravanserraglio, casa chiusa o postribolo persino, gelatina opaca dove tutto si tiene e nulla entra. 
Non loro stessi, protagonisti assoluti di una stagione politica che resterà nella storia per non aver prodotto nulla se non la saga di un omuncolo sopravvissuto ad una Prima Repubblica già in disfacimento. 
Non loro stessi, ma i piccoli partiti di ieri, di oggi e di domani. 
Tanto piccoli per la verità da rappresentare insieme più della metà del paese, che si vorrebbe esclusa dal diritto di scegliere un qualsiasi rappresentante diverso dal florilegio di meraviglie che ci è stato offerto finora.
Dicono che si deve salvaguardare il diritto dei grandi a governare senza ricatti, facendo finta di ignorare che, a ben guardare, i ricatti si sono sempre intrufolati nelle loro stanze, quando invece i cosiddetti piccoli, con torto o con ragione, hanno provato a far valere le ragioni di una differenza politica.
Hanno passato vent’anni a costruire contenitori privi di identità, posticci, tenuti insieme con la colla scadente dell’interesse personale e di gruppo, sempre in nome della quantità che per incanto dovrebbe farsi qualità.
Il risultato è un parlamento pieno di personaggi che hanno cambiato campo più spesso e velocemente di una pallina da ping pong.
Ora minacciano di colpire due volte la rappresentanza, introducendo soglie di sbarramento implicite ed esplicite, e riducendo il numero dei parlamentari, costruendo in questo modo un mostruoso concentrato di potere, a uso e consumo di pochi, lasciando ai molti la possibilità di applaudire per incoscienza il taglio della democrazia.
Che, è bene ricordarlo, è e rimane indissolubilmente legata all’ampiezza della rappresentanza e quindi alla fatica della mediazione politica, senza la quale rimane solo l’arbitrio e l’arroganza di chi ritiene il Parlamento la semplice, statica e ossessiva rappresentazione di un plebiscito quinquennale.
Che l’attuale classe dirigente abbia fallito è un dato di fatto incontrovertibile. 
Che voglia utilizzare il poco tempo che le rimane per perpetuare se stessa, dopo aver già consegnato ad altre mani il governo del paese, cavalcando pulsioni antidemocratiche che essa stessa ha determinato, questo sembrerebbe veramente troppo.
Si abbia invece il coraggio di restituire al più presto al popolo italiano il diritto di scegliersi nella massima libertà parlamento e quindi governo. 
Magari, chi ha occupato la scena del ventennio perduto, usando la cortesia di togliere il disturbo.

domenica 5 febbraio 2012

Se il PD fosse responsabile


La prima volta che posi la fatidica domanda ero un giovane consigliere comunale di Rifondazione, e il mio interlocutore un meno giovane dirigente locale dei DS. Governava Prodi e si andava verso la promessa delle 35 ore. Perché- chiesi, provocatoriamente- governate con noi, quando è evidente che è molto di più ciò che vi accomuna a Forza Italia? Al di la del fatto che Berlusconi è indigeribile..."
"Hai ragione. Noi dovremmo governare con FI, ma il problema è Berlusconi. Prima o poi succederà, perché voi non avete il senso della realtà". La risposta mi colpí come un pugno nello stomaco, perché, al di la di tutto e persino di ogni evidenza, non ho mai avuto dubbi sulla matrice di sinistra di quel partito, nè sulla necessità di unire le forze progressiste del paese. 
Eppure oggi è arrivato quel giorno, e forse per questo non mi sento affatto bene.
Il PD governa col PDL, con la graziosa cerniera di Casini, e il resto del mondo sembra improvvisamente precipitato nell'indistinto. 
Un indistinto ampio, certo, forse maggioritario nel paese, ma privo di ogni credibile aggancio con il futuro.
Doveva risanare il paese Monti, come se il risanamento in fase di crisi perdurante fosse una scelta neutra, priva di connotazioni politiche. 
Sta facendo ben di più e di peggio, provando a forzare nella gabbia del liberalismo classico un paese disorientato, per poi sigillarne le serrature con la disciplina di bilancio di marca tedesca.
Questo è il lascito di un governo a tempo che si pensa indeterminato, alla faccia della monotonia: la prolungata agonia dell'Italia, nella speranza che il dolore sia levatrice di rinascita.
Perché dico questo? Perché è evidente che siamo in una fase di squilibrio fra domanda e offerta, e che non sembra ci sia spazio per determinare sul piano globale una soluzione sul lato dell'offerta, che significherebbe una gigantesca operazione di redistribuzione della ricchezza e del reddito, attraverso una riduzione della produttività totale dei fattori, che gravi sul capitale e non sul lavoro. 
Perché altrimenti l'alternativa è quella in atto, non sostenibile sul piano sociale, ovvero un aumento della disoccupazione e una diminuzione del welfare. 
È quindi necessario intervenire sul piano della domanda, e questo non può avvenire per via degli investimenti privati, che sono in tutta evidenza in preda ad una crisi di fiducia, ma solo per il tramite della spesa pubblica e dei consumi privati. 
Ma se questi sono entrambi impediti da manovre economiche pro-cicliche, si entra nel tunnel senza uscita della recessione. 
Così ragionerebbe una persona normale, per poi adottare le soluzioni che preferisce. 
Ma se sei un liberale in crisi ideologica isterica, allora penserai che il mercato non può fallire, e se sembra fallire è solo per un eccesso di normazione che ne impedisce la spontanea autoregolazione, e quindi il recupero di uno stato di equilibrio, che coincide temporaneamente con il migliore dei mondi possibili. 
E allora proverai a tagliare le mitiche rendite di posizione, a liberalizzare i licenziamenti, a cancellare ogni tutela e soggettività del lavoro.
E’ questo che Monti vuole fare, perchè non riesce nemmeno a pensare nulla di diverso, ed è questo che, per salvare l’Italia, va impedito.
Non può farlo da sola la sinistra politica, priva di rappresentanza parlamentare, nè quella sociale, che questo governo considera alla stregua di un comitato di quartiere.
Spiace dirlo, ma tocca al PD, partito che più di ogni altro ama la parola responsabilità.
Deve scegliere se essere responsabile davanti alla destra europea, alla grande finanza, ai poteri industriali di questo paese, che sanno benissimo che Monti sbaglia, e non accetteranno mai di privarsi di rendite e politiche pubbliche di vantaggio, ma che ora accettano di buon grado il regalo inaspettato della distruzione del diritto del lavoro.
O se esserlo invece verso i disoccupati vecchi, giovani e prossimi, il tessuto produttivo reticolare del paese, i lavoratori, le lavoratrici e il loro diritto alla rappresentanza.
Deve scegliere se essere fedele al proprio passato e quindi proiettato al futuro o se cambiare definitivamente pelle e rinunciare alla propria spina dorsale.
Ogni giorno di più si impone il bivio strettissimo fra elezioni anticipate e resa definitiva ad una mortifera ideologia dell‘800.
Ricordando che quando la politica si da il nome di tecnica non nega se stessa, ma la democrazia, più di quanto possa fare il peggiore populismo.
E che l’impasto di democrazia formale, recessione economica e assenza gridata di alternative appicca incendi che generano mostri.
Dov’è allora la responsabilità?