mercoledì 26 dicembre 2012

"Il giovane candidato alle primarie Giovanni Paglia"


A 35 anni non si ha più l’età per essere un giovane candidato alla Camera dei deputati.
Non si ha più, per la verità, neppure l’età per essere un giovane ricercatore, un giovane precario, un giovane professionista o altro.
A 35 anni le carriere degli sportivi, che non possono mentire all’età, sono già al tramonto, Cristo era già morto e risorto, e Dante aveva oltrepassato abbondantemente la metà del  cammino della vita.
Eppure, quando ci si candida al Parlamento, o alle primarie in questo caso, non puoi non notare davanti alla lista dei candidati che ancora una volta è quel 1977 che un po’ emerge, e allora capisci che questo voto potrà servire anche a rappresentare la sinistra di una generazione e a portarla nelle aule parlamentari.
Perchè sinistra, come ogni parola viva, è un nome che si reinventa ogni giorno, e trova il suo significato nelle lotte, nelle speranze, nel desiderio di cambiamento, che muta sempre con gli anni e le stagioni.
Noi siamo quelli che a Genova hanno visto la loro ragione confondersi nella nebbia dei lacrimogeni e delle cariche di polizia, che hanno avuto paura per un giorno, ma nemmeno per un minuto si sono arresi al richiamo della violenza.
Siamo quelli per cui il futuro tarda sempre ad arrivare, che hanno dato nuova linfa alla resistenza di chi c’era, ma che aspettano ancora il momento della loro lotta.
Siamo quelli che hanno visto partire i loro amici e fratelli, perchè sono nati nella terra dell’inopportunità, dove l’ascensore sociale è al piano terra fisso, dove lo studio è un passaporto per il precariato o l’emigrazione, e la famiglia l’unica forma di welfare.
Siamo quelli che hanno capito bene cos’è la crisi, perchè ha trasformato spesso l’incertezza di un lavoro nella certezza della disoccupazione, o forse non l’abbiamo capito affatto, se stiamo fermi a consumare rabbia e rassegnazione.
Eppure siamo la pietra angolare del futuro, perchè ogni accento dell’economia e della politica resta muto, ogni proposta chiacchiera vuota, se non trova sostanza e sostegno nelle giovani generazioni.
Allora io non mi candido perchè ho 35 anni, nè tanto meno chiedo voti per questa ragione.
Mi candido perchè voglio il reddito minimo garantito come risposta immediata alla crisi, che trasforma il lavoro in un miraggio, e voglio la riforma fiscale, per finanziarlo e trasferire risorse dalla rendita al lavoro.
Voglio che si investa sulla scuola, che rappresenta da vent’anni il paradigma del nostro paese, povera trincea di resistenza martellata dai bombardamenti ministeriali.
Voglio pari diritti e dignità fra tutte le lavoratrici e i lavoratori, e voglio finalmente un ministro del lavoro che la smetta con le favole dei garantiti contro i non garantiti, dei giovani contro i vecchi, dei licenziamenti come anticamera della crescita occupazionale.
E soprattutto sono stanco di sentirmi dare del conservatore dopo aver perso tanto, da chi in questo paese ha sempre e solo voluto garantirsi e garantire ogni grammo di privilegio, da chi sempre preso senza mai rendere nemmeno grazie.
Vogliamo cambiare da quando siamo nati. Ora è il momento di provarci insieme.

domenica 9 dicembre 2012

Con Berlusconi in campo, il centrosinistra guardi all'Europa


E così a Bersani toccherà l’ingrato compito di guidare il centrosinistra in uno dei momenti più difficili della storia repubblicana avendo come contraltari Grillo e Berlusconi.
Bene penseranno quelli a cui piace vincere facile, illusi che possa essere buona anche la vittoria per mancanza di credibili alternative.
Male, malissimo dico io, che per una volta avrei l’ambizione di convincere molto più che di vincere, e di poter misurare la mia capacità di portare il paese ad una svolta minimamente matura e consapevole, perchè dio solo sa quanto bisogno avremmo di cambiamento, maturità e consapevolezza.
Invece Monti e i suoi, veri antagonisti di un qualsiasi centrosinistra europeo, pare siederanno ingombranti in panchina, mentre a giocare la partita saranno il vecchio e il nuovo capocomico, imbolsito l’uno e arrembante l’altro, ma squalificati entrambi.
Può affermarsi un’idea diversa del paese, un progetto di trasformazione reale, nella totale assenza di una dialettica con un’ipotesi alternativa altrettanto forte?
O la presenza di un solo schieramento credibile rischia di indurlo a trasformarsi in uno specchio deformato della nazione, a fargli ritenere di dover essere esso stesso una misura di unità nazionale?
Mi pongo queste domande perchè ritengo da sempre che il problema non sia l’apertura al dialogo con forze, ipotesi e culture diverse, tanto meno in un momento in cui il recupero di credibilità del sistema politico rappresenta forse la prima emergenza nazionale, ma piuttosto la chiarezza cartesiana della propria prospettiva politica e la determinazione nel realizzarla.
Mi spaventa quindi una prospettiva in cui il centrosinistra abbia davanti un centro evanescente e pronto alla resa, una destra avvolta nel revanscismo berlusconiano, l’onda anomala del M5S, mentre torna ad infuriare la tempesta finanziaria.
Mi spaventa perchè come tutti conosco il malinteso senso di responsabilità del PD, la sua vocazione ecumenica, la tendenza ad occupare ogni spazio non occupato.
Per questo credo sia importante fin da subito portare la campagna elettorale in Europa e il confronto sull’alternativa al livello della Merkel e del conservatorismo continentale, molto più che perdersi nei fantasmi passati, presenti e futuri della nostra privatissima casa degli spettri.
Per questo credo sia importante che SEL chieda formalmente l’adesione al PSE, come contributo a chiarire per l’oggi e per il domani campo, riferimenti, valori e relazioni del futuro governo del paese.
Il PD è oggi premiato dai sondaggi, e lo merita, per l’apertura alle primarie e per la sua capacità di essere l’unico punto solido in uno scenario politico fluido e instabile.
E’ una buona notizia per il centrosinistra, ma rischia anche di essere il suo limite, se quei voti in arrivo saranno figli della rassegnazione e coltivati nell’indeterminatezza.
A SEL, che ha certamente meno voti, il compito di dare un’anima ad una coalizione cui il PD rischia di dare solo volume.

venerdì 7 dicembre 2012

A Ravenna esiste ancora il PRI, sta in maggioranza e acquista legisti. Confesso che ho un problema.


Sarebbe un grave errore lasciar passare l’idea, anche in una città di provincia come Ravenna, che sia cosa normale, se non buona e giusta, che un eletto in un partito di opposizione ad un certo punto si alzi e si trasferisca nei banchi di un altro partito, per di più di maggioranza.
Significherebbe infatti non capire che atteggiamenti e giochetti che hanno contribuito ad affossare la credibilità della politica italiana non sono meno gravi se praticati in palazzi di minor rango del Parlamento, ma se possibile lo sono di più, perchè contribuiscono ad alimentare l’idea che il sistema intero sia irrimediabilmente compromesso.
Il sig.Ravaioli è subentrato a Learco Tavoni 9 mesi fa. 
Aveva avuto tutto il tempo di giudicare l’operato della Giunta ravennate e le evoluzioni politiche della Lega Nord. Avrebbe serenamente potuto rinunciare al subentro, e permettere agli elettori del suo ex partito di continuare ad avere la rappresentanza conquistata con il voto.
Non lo ha fatto e ha preferito comportarsi da proprietario di un consenso non suo.
Trovo tuttavia ancor più grave l’atteggiamento del PRI, che sembra non aver compreso quanto sia finita la stagione delle transumanze, quanto sia sensibile l’elettorato al tema della responsabilità degli eletti, dedicandosi ancora allo sport dei piccoli cambi di casacca, sperando forse di ricavarne altrettanto piccoli vantaggi di potere.
E non capisco il resto della maggioranza, che tace o sonnecchia, liquidando evidentemente la cosa come questione privata fra i soggetti coinvolti, senza capire che il rispetto sostanziale della volontà dell’elettorato riguarda tutti noi e non è un elemento secondario della democrazia.
Per quanto mi riguarda, vale l’invito alle dimissioni, pur tardive, del consigliere Ravaioli, che può dimostrare di aver compreso l’errore per rimediarlo.
Su chi ha voluto avallarne una scelta che non trova riscontro nel campo dell’etica politica, il giudizio è ben peggiore, e non fa che confermare la distanza già più volte sperimentata con un alleato che non può dirsi nostro.

domenica 2 dicembre 2012

Per un giorno, tutti con Bersani


Il secondo tempo delle primarie ci ha mostrato cosa queste sarebbero state fin dall’inizio senza la presenza di Nichi Vendola.
Una guerra feroce per bande all’interno del PD, con un’attenzione ai contenuti vicina allo zero e una spasmodica, a tratti violenta, attenzione alle “regole”, che poi altro non sarebbero che i paletti che tentano approssimativamente di circoscrivere il campo del centrosinistra.
Renzi l’avrebbe voluto da subito molto ampio, confidando nella sua capacità di attrarre elettorato dal disastrato centrodestra italiano, Bersani limitato al pur non trascurabile ambito del centrosinistra, per ragioni logiche, oltre che politiche, che tutti possono ben comprendere e condividere.
Si tratta di permettere alle primarie di essere ciò per cui sono nate, uno straordinario strumento di delega al nostro popolo della scelta di interpreti e indirizzi della politica, e non  una zattera gettata a chi dall’altra parte pensa di poter solo scegliere da chi essere sconfitto.
Alla fine quindi domani non si tratterà di scegliere fra due programmi, nè di sostenere il meno peggio, nè di partecipare per dare un segno di attenzione ad uno spettacolo che francamente non ha avuto da sette giorni nulla di edificante.
Si tratterà invece di votare per chiudere definitivamente la stagione della sinistra in maschera, occultata dietro idee, volti e linguaggi presi in prestito, per rivendicare il nostro diritto di chiedere al paese un voto per uscire dalla crisi.
Bersani può essere la persona giusta per farlo, perchè, nonostante le mille ambiguità e tentennamenti, e nonostante Monti, gli vanno riconosciuti coraggio e tenacia nel costruire una via d’uscita a sinistra dal berlusconismo e dal governo tecnico.
Lo dimostrano il baricentro dell’alleanza, di cui SEL non può essere considerata un elemento estetico, bensì la più evidente e materiale dichiarazione d’intenti, e la resistenza alle sirene del Monti dopo Monti, risuonate con forza in questi mesi dentro e fuori il PD.
Bersani ha dimostrato in queste settimane di aver colto il carattere strutturale della crisi economica, e di aver individuato il nesso profondo fra questa e l’aumento delle diseguaglianze, che ne rappresentano insieme la causa e l’effetto.
Ha parlato di lavoro e reddito come punti di partenza di ogni ipotesi di ripresa e non come variabili del ciclo economico.
Bersani non era per me il miglior candidato possibile alla presidenza del consiglio, perchè preferisce la sfumatura al tratto nitido che la gravità dei problemi in campo richiederebbe.
Ha tuttavia compreso quale sia il tempo in cui viviamo, mentre Renzi corre rapido con la testa voltata all’indietro.
Per questo oggi non avrò alcuna difficoltà a dare il mio voto a Pierluigi Bersani, ma lo farò con piacere, per costruire da domani affianco a lui un paese migliore.

mercoledì 7 novembre 2012

Una legge elettorale inaccettabile


E’ possibile cambiare una legge elettorale a 6 mesi dal voto per impedire ai probabili vincitori di confermarsi tali?
In una democrazia occidentale probabilmente no, in Italia sta per accadere per la seconda volta in meno di un decennio, e sempre grazie all’intesa fra PDL, Lega e UDC.
L’altra volta fu il porcellum, e l’obiettivo era minimizzare le perdite e puntare sull’instabilità, stavolta è il rutellum, e ciò che ci potrebbe aspettare è la palude neo-democristiana, votata al transito del nocchiero Monti.
Ora diranno che non sarebbe etico consentire a chi abbia il consenso di un terzo del paese di godere di un’ampia maggioranza parlamentare.
Oppure aggiungeranno che non si può correre il rischio che in virtù della frammentazione del sistema politico Grillo possa risultare vincitore delle elezioni e quindi autonomamente in grado di formare il governo.
Qualcuno si ricorderà anche delle virtù della rappresentanza, ingiustamente liquidate in 20 anni di bipolarismo semi-maggioritario, che potranno certo essere ancor più esaltate della reintroduzione della preferenza multipla. 
Una terna, per essere precisi, con almeno una donna, per essere corretti.
E in mezzo a tutte queste dotte disquisizioni ci porteranno al voto come in un gioco finto, con il plauso di chi ama le parti in commedia assegnate ai tempi della rimpianta Prima Repubblica. 
Democristiani al governo e rivoluzionari all’opposizione, gli uni per restarci e gli altri pure, senza il rischio di colpi di scena o di testa.
Contento Napolitano, contento Casini, contenti Alfano, Maroni e tutta la compagnia, contenti anche Grillo e i tanti funamboli della Sinistra di Opposizione, per non parlare naturalmente dei Mercati.
Si blinda la democrazia, riducendola a mera forma immutabile.
E’ necessario accettare tutto questo, la riemersione della balena bianca dagli abissi della Seconda Repubblica?
Naturalmente no, soprattutto se si crede che in gioco non sia il futuro del centrosinistra, ma quello dell’Italia, che di tutto ha bisogno fuorchè di continuità con la sua storia recente e passata.
Se il PD crede nelle sue ragioni, stacchi la spina al governo e si vada subito al voto, senza riporre inerti il proprio destino nelle mani di personaggi come Casini, confidando magari in improbabili mediazioni dei più alti livelli istituzionali.
In queste settimane siamo tutti impegnati nelle primarie, che promettono agli italiani di conoscere programma e leader di almeno una delle coalizioni in campo.
Non vorremmo dover dire che abbiamo scherzato.

domenica 4 novembre 2012

L'inutile dibattito su Blair


La cosa stravagante non è che nel 2012 il centrosinistra italiano si divida su Tony Blair, ma che ne discuta.
Se infatti sul personaggio la storia avrà modo di dire la sua, probabilmente senza particolare benevolenza, non può esserci invece alcun dubbio sulla sua totale estraneità alle sfide del tempo presente.
Blair ha strappato la Gran Bretagna ai tories post-tatcheriani, sulla base dell'intuizione che il pensiero liberista fosse ormai tanto egemone nella società anglosassone da non poter essere discusso, ma tuttalpiù addolcito, reso cool da una nuova generazione di dirigenti laburisti cresciuti fuori dalle macerie delle sconfitte degli anni '70 e '80.
Non ha cambiato direzione, ma ha provato a rendere più confortevole il tragitto, e forse a renderlo possibile per qualcuno in più.
Peccato che la direzione fosse la crisi odierna, sulla quale la terza via e il new labour, tornato non a caso piuttosto old stile, ammutoliscono, perché rappresenta esattamente la negazione  di tutta l'impalcatura ideologica delle sinistre di governo anni '90.
Il punto quindi non è e non può essere il posto di Blair nell'album di famiglia, dove pure dovrebbe stare dalla parte dei parenti di cui ci si vergogna un po', come conviene a uno che ha portato il proprio popolo in una guerra inutile sulla base di consapevoli menzogne.
Il punto è se si possa anche solo immaginare di uscire dalla crisi attraverso ricette economiche e sociali che hanno contribuito a portarci nella situazione attuale, e di cui Blair fu convinto sostenitore.
Naturalmente no, e infatti in tutta Europa e nel mondo la sinistra parla d'altro. 
Parla, sostanzialmente, la lingua di Vendola.
Se in Italia non è così, e si pensa di andare avanti per suggestioni, ammiccamenti e importazione di modelli scaduti, decisamente abbiamo un problema.
A proposito. Abbiamo già avuto un blairiano di ferro, peraltro in tempo utile. 
Era il rottamando Massimo D'Alema. 
Dio li fa e poi li divide.

giovedì 1 novembre 2012

A Ferrara c’è un assessore. Volgare e omofobo. Renziano, of course


A Ferrara c’è un assessore. Uno di quelli giovani, professore universitario, dinamico e con la passione dei social network. Renziano, of course. Di nome fa Luigi Marattin.
Ieri sera decide di seguire la trasmissione di Lilli Gruber, ospite Nichi Vendola, che esprime un giudizio non lusinghiero su Blair.
Il nostro non ce la fa più, impugna la tastiera e pubblica su FB: 
Vendola a La7: "Renzi perdera' le primarie anche perche' ha come modello Tony Blair, la figura più fallimentare della storia della sinistra europea, che ha sempre perso e fatto perdere". Nichi, per usare il tuo linguaggio, ma va' a elargire prosaicamente il tuo orifizio anale in maniera totale e indiscriminata”.
Qualcuno si arrabbia, altri fanno notare che stile e linguaggio mal si addicono a chi rivesta un ruolo istituzionale, e il sig.Marattin insiste:
Gentile sig.xxx, esatto, non ho assolutamente intenzione di scusarmi. Il Presidente Vendola ha fatto un'affermazione clamorosamente fuori luogo e non veriteria, e pertanto - sfruttando il fatto di essere su un social network e non in una sede istituzionale - l'ho mandato a dare via il sedere, senza utilizzare parolacce. Avrei fatto la stessa cosa se avesse detto un'inesattezza lei, o avrei accettato di buon grado la stessa cosa se a fare un'affermazione errata fossi stato io. Se invece si tira in ballo l'omosessualita' di Vendola, la cosa diventa secondo me molto grave, come ho gia' spiegato. Perche' presuppone che un omosessuale debba, in qualche modo, appartenere ad una categoria "protetta" in virtu' di una disabilita'. Io non la penso cosi'.
Al sig.Marattin sfugge completamente cosa significhi rivestire un ruolo istituzionale e in virtù di questo avere dei doveri verso tutte le cittadine e i cittadini della propria città e non solo.
Ignora che accettando la carica di assessore non ha aggiunto un mestiere al proprio curriculum vitae e uno stipendio al proprio 730, ma accettato tra l’altro di rinunciare a poter esprimere opinioni da trivio senza assumersene la responsabilità.
Non capisce che scusarsi a questo punto sarebbe il minimo per salvaguardare la propria dignità, e non per salvare una carica da cui dovrebbe dimettersi domattina stessa.
Non foss’altro che per liberare il sindaco di Ferrara e Mr Matteo Renzi dall’imbarazzo di dover spiegare perchè accettino di farsi rappresentare da un signore che parla di omosessualità in termini di disabilità, arrivando la dove nemmeno si spinsero un Borghezio o una Binetti.
Intanto le dimissioni le chiediamo noi, al sig.Marattin, e, se non vorrà darle, al sindaco e al PD, e lo facciamo pubblicamente.
Di assessori così potranno serenamente fare a meno Ferrara e l’Italia.

martedì 30 ottobre 2012

Piccole lezioni siciliane


Dicevano che la Sicilia fosse il laboratorio politico del paese, e c’è da sperare che si sbagliassero.
Si è infranto il muro del 50% dei votanti, e certo non per estrema soddisfazione per l’andamento delle cose.
Crocetta, senza dubbio un uomo della sinistra, sarà presidente senza una maggioranza certa e in virtù dell’alleanza con l’UDC, unico partito a poter vantare una cinquantennale consuetudine col potere isolano in tutti i suoi significati.
La destra si frantuma per non morire e c’è da scommettere che non lo farà.
La sinistra si assomma in se stessa e muore, dimostrando di aver capito molto poco della fase, prigioniera della propria idea di essere la sola, naturale depositaria del desiderio di alternativa, se libera dal compromesso con moderati di ogni risma.
L’alternativa è invece il M5S, tanto alternativo da candidarsi ad essere il miglior alleato di ogni conservatore, con la sua attitudine a sequestrare dalle dinamiche della democrazia grandi quantità di elettori, per rinchiuderli nel recinto autistico del vaffa.
Ne vediamo già i primi risultati, con la dichiarata indisponibilità assoluta al dialogo con Crocetta, che rischierà di rinchiuderlo ulteriormente nei meandri delle giravolte gattopardesche.
Così ora ci toccheranno i peana dei Fioroni di turno sulle meravigliose sorti dell’alleanza PD-UDC, e l’ennesimo esame di coscienza della sinistra, per cui pare sempre normale dividersi ferocemente nella quotidianità, unirsi nella paura a due mesi dal voto, per tornare a dividersi nell’ora che segue l’ennesima, inevitabile sconfitta.
Ora, per quanto mi riguarda, l’UDC sarà anche un buon compagno di strada per chi apprezzi il genere, ma il 30% ottenuto da Crocetta in un quadro di desolante svuotamento di partecipazione non è certo un viatico entusiasmante, nè tanto meno riproducibile sul piano nazionale.
Allo stesso modo, si deve dichiarare chiusa definitivamente e senza rimpianti la stagione delle coalizioni del nulla della sinistra-sinistra, capaci di mettere insieme più sigle che voti e chiaramente incapaci, al di là dell’impegno e buona volontà dei protagonisti, di proporre un progetto e un immaginario comprensibili e adeguati ai tempi.
Chi voleva la prova della capacità di Grillo di riconnettere a se ogni ipotesi e sentimento di radicale alternativa al quadro esistente e quindi di proporsi come credibile protagonista delle prossime politiche oggi l’ha avuta.
Allo stesso tempo la destra potrebbe aver offerto l’anteprima di uno spettacolo di divisioni, opportunismi e si salvi chi può da mettere in scena nel 2013.
Cosa manca?
Manca il centrosinistra, ovvero una possibilità credibile di cambiamento reale del paese, che sappia e voglia imporsi non per stanchezza o debolezza altrui, ma perchè realmente convinto di poter vincere con i propri mezzi e le proprie idee.
Le primarie dovevano esserne il lievito. Finora rischiano di giocare l’effetto contrario, ma le le elezioni siciliane, a ben vederle, dovrebbero spingerci a rimetterle immediatamente sul binario giusto.
Il pericolo infatti è grande e occasioni e tempo troppo pochi per sprecarli in giochi di ruolo.

sabato 27 ottobre 2012

Berlusconi torna in scena, ma la trova già occupata


Appartengo alla schiera, suppongo piuttosto ridotta, di quanti in questo lungo ventennio si sono opposti a Berlusconi costantemente e completamente ignorando i suoi problemi giudiziari.
Non mi è mai interessata la ragione di fondo che l’avesse spinto in politica, nè l’andamento dei suoi processi.
Non ho mai apprezzato Travaglio e si suoi sodali e mi ha sempre preoccupato la degenerazione manettara di parte del popolo a cui sento di appartenere.
Di Berlusconi ho sempre temuto la tendenza a trasformare la politica in una grande fabbrica di consenso e il governo in uno strumento per mantenerlo, la promozione di un ceto politico inadeguato a funzioni diverse dall’applauso, l’intolleranza per la divisione e l’equilibrio dei poteri, la promozione di Bossi a statista e lo sdoganamento dello squallore post-fascista.
Gli imputo di avere una grande responsabilità nell’aver favorito lo sgretolamento sistematico di ogni base e struttura sociale nel nostro paese, alimentando un individualismo egotico che ci lascia oggi smarriti davanti alla necessità di recuperare un filo razionale di progetto collettivo.
Ha costruito una folla eterogenea di cinici e estasiati, allestito un governo come fosse un reality, determinato un’opposizione unita ancora e solo dalla sua persona.
Ci ha lasciato in eredità un paese spolpato dalle scorribande dei soliti noti e dei loro nuovi epigoni, dove tutto ha potuto diventare oggetto di scambio e di commercio, dove nell’assenza della sola ipotesi di una politica economica e industriale chi ha saputo e potuto farlo ha vinto il banco e abbandonato il tavolo, lasciando più poveri tutti gli altri.
Se ne è andato senza volerlo, ha minacciato il ritorno, ha lasciato definitivamente, salvo poi, per ironia o per calcolo, subire l’onta di una condanna che affogherà nel mare della prescrizione, ma che per il momento lo porta a riaffacciarsi sul palcoscenico del titanic.
La scena tuttavia non è più sua, ma della triplice eredità che ci ha lasciato.
Mario Monti e i suoi boiardi, generati dalla reazione all’incuria, al discredito e al collasso prossimo venturo, liberisti per procura e alfieri della post-democrazia tecnocratica, paladini della meritocrazia ereditaria per diritto dinastico.
Beppe Grillo, grande catalizzatore di ogni rancore individuale, tribuno della plebe e aspirante al ruolo sempre ambito di primo oppositore, nemico eletto di e da ogni potere costituito.
Matteo Renzi, il nuovo illusionista, l’uomo dalla battuta e dal sorriso giusto, buono per il palco e per il retro palco, che promette la rivoluzione senza i rivoluzionari e piace alla destra non perchè sia dei loro, ma perchè parla la lingua e indossa il personaggio del vecchio capo.
Monti, Grillo e Renzi, ovvero la coppia che fa sognare ogni potere conservatore italiano e il virus gentilmente donato alla sinistra.
Berlusconi non andrà in galera, ma se pure fosse non mi troverete fra quelli che festeggiano. 
Ho già altro di cui preoccuparmi.

mercoledì 24 ottobre 2012

Cosa vuole Matteo Renzi?


Cosa voglia Matteo Renzi da queste primarie non è chiaro.
Non parla di programmi, se non per allusioni e slogan, che valgono quanto le scritte sui palloncini pubblicitari.
Non si interessa di alleanze, non perchè riconosca un qualche valore a quelle già sottoscritte, ma perchè ha riscoperto d’un tratto il PD autosufficiente di veltroniana memoria, che è come dire il nulla.
Non si riconosce nelle regole, belle o brutte che siano, di un gioco a cui ha tanto desiderato partecipare da imporre una deroga ad personam allo statuto del suo partito.
Pretende confronti pubblici con Bersani, ma si rifiuta di partecipare a dibattiti con altri concorrenti, come a difendere una rendita di posizione da sfidante ufficiale gentilmente offertagli dalla grande stampa nazionale.
Ha parlato per un anno di rottamazione, solo di rottamazione e nient’altro che di rottamazione, salvo poi chiarire che si trattava di un espediente bieco, truce e volgare, e che nell’Italia delle mille gerontocrazie Veltroni e D’Alema potevano bastare.
E’ andato ad Arcore, perchè si deve parlare con tutti, e poi dai Finanzieri, perchè la politica non deve averne paura, e verrebbe da dargli ragione, se in entrambi i casi non l’avesse fatto a porte chiuse e finestre sigillate.
Gira l’Italia in camper, come un Grillo qualsiasi, ma non disdegna il jet, se si deve far presto, nè il Suv, se la schiena duole, ma di questo si potrebbe anche non parlare.
Ma rimane la domanda iniziale, ovvero perchè uno dovrebbe candidarsi ad una competizione di cui non condivide le regole, con una compagnia che non gradisce, sottraendosi ad ogni momento di confronto pubblico, e riportando indietro di vent’anni forma e sostanza del dibattito politico, quando invece il centrosinistra italiano avrebbe l’impellente necessità di restare ben agganciato al treno delle socialdemocrazie europee?
Si risponderà che è per smania di protagonismo, perchè l’occasione del momento è tale da sollecitare ogni ambizione, perchè il PD è nato male e quindi qualcosa deve sempre andare storto.
Oppure che in questo paese la paura che alcuni hanno della sinistra è tale da giustificare anche l’invasione di campo se la partita sembra persa, e se tutto finirà in malora tanto meglio, che un Monti alla bisogna non è mai stato difficile trovarlo e tanto meno lo sarà oggi che ha già finito il riscaldamento.
Renzi, che come Grillo propone a tutti noi l’ennesima dose di autoassoluzione consolatoria, non vincerà le primarie, ma ha già fatto abbastanza, con la gentile collaborazione dei bersaniani militanti, per inquinarle e renderle impraticabili.
Ma abbiamo un mese di tempo per riprendercele e tutta l’intenzione di farlo.

lunedì 22 ottobre 2012

Due primarie in una


Il momento iniziale delle primarie del centrosinistra ha evidenziato un’unica certezza.
Le primarie sono due, con agende e obiettivi diversi, diverso seguito sui media e protagonisti che si intrecciano.
La prima vede la partecipazione solitaria di Nichi Vendola, si svolge fra teatri, piazze e palazzetti affollati, percorre le strade della crisi globale e del suo possibile superamento, della nuova centralità del lavoro come via di uscita necessaria dal nichilismo finanziario, della modernità che stringe welfare, diritti, green society.
La seconda trova ogni giorno uno spazio nelle prime pagine dei grandi giornali e nell’informazione televisiva, muove grandi analisi e attenzioni, coinvolge Renzi e Bersani ed ha come unico punto di contesa chi e come comanderà nel PD.
Lo scontro si snoda fra contesa sulle regole e sulle prossime candidature, sul giudizio sul passato molto più che su un’idea di futuro, con le prospettive del partito sopravanzanti e di molto quelle del paese.
Questo dualismo rischia di nuocere alle primarie, riducendo a sterile lotta di potere quello che dovrebbe e può di certo essere un appuntamento decisivo per far maturare e vivere una credibile proposta di governo per il cambiamento, di cui l’Italia ha senza dubbio un disperato bisogno.
Nessuno sa ancora nulla di ciò che Renzi immagina per l’Italia, se non se stesso premier e D’Alema fuori dal Parlamento, insieme a una rimescolata di idee miracolosamente scampate al naufragio dei campioni sinistri degli anni ’90, naturalmente inattuali, ma ancora buone per una copertina.
Di Bersani è nota la storia, la volontà di rientrare nel solco attuale delle socialdemocrazie europee, ma senza esagerare e con un occhio alla specificità italiana, l’attitudine a considerare se stesso al comando, perchè è così che deve essere.
In comune hanno la volontà dichiarata di chiudere con Monti, ma sottraendosi al dovere di trarre un bilancio sull’esperienza del governo tecnico, come se questo fosse stato un evento naturale, e non un elemento di svolta con cui è obbligatorio confrontarsi, pena l’ulteriore decadimento del dibattito pubblico italiano.
Rimane Vendola, di cui è assolutamente chiaro e noto il giudizio sull’esecutivo in carica, sulle sue misure, e su ciò che di queste bisognerà fare, che esprime un’identità e un programma nitidi e un’opzione non reticente sul centrosinistra come spazio possibile dell’alternativa, ma che proprio per questo nel contesto dato rischia paradossalmente di apparire l’unico candidato delle primarie sbagliate.
Il problema è che primarie indirizzate e condotte secondo l’agenda Renzi non sono solo inutili, ma dannose, perchè come la moneta cattiva scaccia quella buona, un dibattito sul nulla alimentato da conflitti intestini impedisce di mettere a fuoco il problema centrale, che è e dovrebbe rimanere il ruolo europeo e quindi italiano nella crisi economica globale.
Per questo il centrosinistra, come ipotesi autonoma e innovativa di governo, uscirà più debole da primarie che si ostinino a pestare acqua nel mortaio del rinnovamento estetico, delle strizzate d’occhio ad un’antipolitica autoassollutoria, degli scontri autoreferenziali sulle regole.
Per questo Bersani, come segretario del primo partito della coalizione e autorevole, aspirante candidato premier, deve dare rapidamente una sterzata, iniziando a parlare di programmi e soprattutto a privilegiare il confronto con chi, come Vendola, di questi parla da sempre, anzichè accettare il gioco di chi lo vuole costantemente impegnato nella marcatura del sindaco di Firenze.
Le primarie forse rimarranno due comunque, ma sarà almeno più chiaro in quale si gioca il destino del centrosinistra e forse un poco dell’Italia.

giovedì 18 ottobre 2012

Ancora TINA. Oppure Vendola


La nostra vita è fatta di scelte.
Scegliamo ogni giorno a chi sorridere e per chi valga la pena piangere, a chi donare il nostro tempo e da chi farcelo rubare, quali scarpe indossare e che cosa mangiare, se incontrare un amico o assaggiare la solitudine.
Scegliamo con chi vivere e vorremmo poter scegliere il momento della nostra morte, e in ogni momento oscilliamo fra l'abbandono e la lotta, sia per un'idea, per un figlio, per il nostro futuro.
Poi solleviamo lo sguardo sulla politica e la strada che ci viene indicata è diritta e senza vie di uscita.
Non c'è alternativa al precariato che consuma le vite e le generazioni, al lavoro minacciato e senza diritti, alla fatica di un tempo che non prevede il riposo, alla dignità offesa ogni volta che si china la testa.
Non c'è alternativa alla dissoluzione dello stato sociale, all'espansione infinita delle spese militari, alla demolizione della scuola pubblica e di tutti, alla negazione del diritto alla salute. 
E nemmeno esiste un'alternativa al potere irresponsabile dei soliti noti, alla fuga di chi ha la forza di andare e non ha più quella di restare, al cancro delle mafie, ad una crisi che giorno dopo giorno consuma la storia dei nostri padri e il nostro presente.
Figurarsi se si può pensare ad un’alternativa a Monti o a chi per lui, all’Europa del rigore che sa di funerale, ad un’Italia piccola e immersa nel suo rancore e nelle sue paure, al quotidiano giudizio divino dei mercati, alla mano invisibile e inflessibile dello spread.
La nostra vita è fatta di scelte, ma quando è in gioco la vita stessa vorrebbero che la consegnassimo all’inevitabile.
Oppure Vendola, perchè è così che noi oggi diciamo che la democrazia è molto di più  che  aggiungere una spezia ad un piatto già cotto e la libertà la premessa di qualsiasi domani.
Noi non ci consegnamo alla ragione di quelli che avevano torto e che ancore pretendono di far pagare il prezzo dei loro errori a chi paga da sempre.
Non ci rassegniamo alle mezze misure, ai diritti surrogati, alle parole sbiadite di un ceto politico figlio di troppe sconfitte o mai sceso in campo.
Non vogliamo rottamare nessuno, perchè abbiamo troppo rispetto della vita e della storia di ognuno, ma sappiamo quanto la storia possa pesare fino a rendere inerti e consigliare il commiato.
Vogliamo salario e diritti, perchè ci piacciono le parole antiche, e uguaglianza, solidarietà e giustizia sociale, perchè la modernità finisce nella loro scomparsa.
Amiamo la complessità, che ci costringe a studiare e coltivare il dubbio, a sperimentare percorsi inediti, a rifiutare ogni tipo di vaffanculo, che, detto sottovoce, se non è fascista non ci va lontano.
Crediamo che il centrosinistra sia ciò che di meglio si possa offrire al paese, ma che l’Italia meriti di più di un usato sicuro o di un camper che viaggia al ritmo stanco degli anni ’90, spacciando per nuovo ciò che era già vecchio 20 anni fa.
Se non c’è alternativa alla strada che corre verso il precipizio, non si tratta di rallentare, nè di sperare che qualcuno costruisca un ponte, ma di assumere fino in fondo il coraggio e la forza di aprire una via nuova.
Vogliamo Vendola presidente del consiglio. Per noi, molto prima che per lui.

lunedì 8 ottobre 2012

Anni '90. Oppure Vendola


I ‘90 li ricordo per gli amici, la musica, i locali, Clinton, Blair, l’Ulivo e Berlusconi, e io che stavo dall’altra parte, i miei vent’anni, la fine della storia, il liceo e l’Università, amori primitivi, la patente, macchine improbabili, il muro crollato e la polvere sospesa. 
In altre parole sono stati i miei anni.
Anni belli, colmi di ansie, dubbi e possibilità. Anni in cui poteva esistere il futuro, anche se poi Kurt Cobain si suicidava, la Jugoslavia si suicidava, e in Kosovo si suicidava anche l’etica delle sinistre mondiali.
Noi che li abbiamo attraversati siamo gli ultimi scampati all’onda del precariato o i primi sommersi. Questione di tempi stretti, fortuna e scelte di vita. A chi è venuto dopo è mancato anche questo.
Siamo quelli che hanno iniziato una strada che doveva avere delle svolte, che si chiamavano casa, famiglia, carriera, benessere, e molti di noi sono ancora in attesa di vederle.
Abbiamo firmato una cambiale che si chiamava mancanza di alternativa, e siamo ancora in attesa di incassarla. 
Non ci hanno insegnato a lottare, e come avrebbero potuto? I nostri padri erano sconfitti, sconfitti e ancora sconfitti. Qualcuno taceva per la vergogna, qualcuno si era persino convinto di aver vinto.
E’ a noi che parla Matteo Renzi.
Ci dice che non abbiamo sbagliato, ma che semplicemente ci hanno fregato. Che non siamo stati deboli, ma vittime della fiducia negli adulti, che intanto si sono fatti anziani. Che nulla è perduto, perchè se ci libereremo di loro ci sarà posto per noi.
Parla alle nostre frustrazioni di eterne promesse, a chi pensa che da sempre sia il suo momento, a chi non riesce nemmeno a immaginare il noi, ma vorrebbe tanto risollevare il suo io dalle paludi delle promesse mancate.
E’ un Blair fuori tempo massimo, ma in fin dei conti parla ad una generazione fuori tempo da sempre, che sogna la promozione che spetta a chi ha studiato, fatto i compiti e aspettato in silenzio il proprio turno, che non è mai arrivato, perchè il paese si è fermato, e quando un paese prima si ferma e poi precipita all’indietro non c’è promessa che tenga.
Parlare di meritocrazia in un paese in cui una giovane madre meridionale abbia come unica certezza la disoccupazione significa agitare fuochi fatui nella tempesta.
Non è un problema di merito, ma di disuguaglianza, e questo Renzi e quelli come lui non lo capiranno mai, perchè è fuori dal loro schema, estraneo ad uno sguardo che prevede solo lo specchio.
Noi, noi che abbiamo trent’anni ma più spesso vediamo i quaranta di quello specchio dobbiamo liberarci, e parlare onestamente a noi stessi.
Ci ha fregato l’individualismo, ci ha fregato il cinismo, ci ha fregato quella maledetta idea che la storia fosse finita, e che quindi ognuno restasse solo con se stesso e potesse starci bene.
Ci hanno fregato i soldi dei nostri genitori e nonni, molto più che la loro presenza sulla scena, la comodità di lasciar fare e intanto aspettare che la festa continuasse.
Le feste, si sa, finiscono sempre all’improvviso, quando le luci si accendono e la scena si rivela spoglia e sporca.
Riprenderci il futuro non sarà questione di rottamare il deejay, ma di uscire dal locale e ricominciare a vivere, riconquistando palmo a palmo un mondo che intanto il capitale si è fottuto.
Ho detto vivere. Avrei dovuto dire lottare.
Senza credere a chi all’uscita cercherà di venderci, per sua ammissione, una macchina usata.
Possiamo arrenderci a chi ricicla un’idea o a chi non ne ha mai avuta una. Oppure Vendola.

martedì 25 settembre 2012

Le brutte storie finiscono peggio


Le brutte storie finiscono peggio. 
Se qualcuno cercasse una conferma, passasse in rassegna i frame della Seconda Repubblica italiana, per chiedersi poi quanto attaccamento alla democrazia debba avere un popolo per sopportare l’urto di un ventennio iniziato con Tangentopoli e finito con il crepuscolo dei cacicchi berlusconiani e affini.
Il pluridecorato Roberto Formigoni, la fasciosindacalista Renata Polverini, il Lombardo di Sicilia, succeduto all’uomo d’onore Toto Cuffaro, e poi gli Scopelliti, i Caldoro, i Cappellacci, e tutta la risma dei signori delle preferenze, che servono anche quando non ci sono, e i beneficiati di ogni tipo, fra nomine e recuperi.
Un esercito di custodi del favore e del privilegio, dispensatori di regalie e gran costruttori di grovigli di interessi più o meno leciti, dove tutto si tiene e si confonde, riportando il potere alla sua natura più bassa, quello di collante fra interessi individuali e di gruppo, senza alcuna ambizione se non quella di una ricca, eterna sopravvivenza.
Berlusconi è stato il gran maestro, il trait d’union fra le pratiche e culture più sordide della prima Repubblica e il grottesco banchetto che le è succeduto.
Ha teorizzato che la politica fosse il piccolo pascolo per uomini dappoco ma dai grandi appetiti, perfetti per garantire una fedeltà sconfinata, e a questo l’ha ridotta, senza incontrare ostacoli insormontabili in una sinistra sempre più priva di anima e passione, se non quella generata dall’ebrezza delle lotte intestine.
Abbiamo creato una classe dirigente, perchè è così che purtroppo va chiamata anche l’intendenza, quando le viene affidata la guida del convoglio, senza nerbo, spirito e cultura, eppure fortissima, nel creare le condizioni della propria affermazione.
Ora la vediamo affondare nel discredito e nell’insulto, lasciandoci in balia dei commissari tecnici, a cui non tocca nemmeno l’onere della prova, messi davanti allo spettacolo quotidianamente offerto da cricche che hanno la spudoratezza di autodefinirsi partiti.
A noi che abbiamo resistito, e ancora resistiamo, resta la rabbia e lo sconforto di sentirci ancora una volta diversi, quasi che per la sinistra di questo paese esista una condanna perpetua all’alterità.
Diversi perchè non abbiamo rubato, abbiamo provato e costruire sprazzi di buona politica, abbiamo scarpinato per mille piazze, tentato l’assalto ai piccoli cieli del presente, investito noi stessi, che era l’unico capitale di cui potessimo disporre.
Abbiamo persino continuato ad attaccare i nostri manifesti, distribuito i nostri volantini, occupato i social networks con i nostri pensieri. 
E oggi pare che fossimo rimasti soli a farlo, e allora più che fessi potremmo sentirci pure un po’ orgogliosi.
Però non è di noi che parla la Repubblica che ci lasciamo alle spalle, col timore che in quella che viene sarà forse difficile entrare, ma degli altri, che ci consegnano un ventennio perduto per tutti, tranne che per loro.
Come il morto proveranno ad afferrare il vivo, con l’aiuto non disinteressato di chi oggi mette nel denunciarli la stessa energia prima usata per coprirli, e ci proveranno con tutte le loro forze, perchè se siamo tutti colpevoli, saremo tutti assolti, o almeno in purgatorio.
Andò più o meno così, quando questa brutta storia cominciò, e dopo vent’anni siamo ancora qui a chiederci perchè.
Quindi i vivi è bene che comincino a correre, e anche piuttosto rapidamente.

domenica 16 settembre 2012

Renzi, Favia e il liberismo antropologico


Nell’ultima settimana ci siamo baloccati con due non-notizie, la candidatura di Renzi alle primarie del centrosinistra e il gioco di ruolo all’interno del M5S.
Non-notizie perchè ampiamente annunciata la prima e del tutto prevedibile la seconda.
A tenerle insieme, senza che tuttavia questo abbia avuto alcun tipo di riscontro nei commenti ad alcun livello, l’assoluto disprezzo per le regole della propria comunità che accompagna entrambe le vicende.
Renzi parteciperà a primarie che, da statuto del proprio, non di un altrui, partito, non avrebbero dovuto riguardarlo, e lo fa chiamando dall’esordio al voto l’elettorato di centro-destra, aggiungendo così uno sfregio sostanziale a quello formale già consumato.
Favia, nel ribellarsi con una sceneggiata al duetto Grillo-Casaleggio, per cui potrebbe valere l’immortale slogan riferito alla coppia Craxi-Berlusconi, colpevole di chiudergli la strada ad ogni prosieguo di carriera politica, contesta l’unico, riconosciuto caposaldo del M5S, il fatto che nel movimento Beppe Grillo possieda nulla se non il tutto, ovvero il simbolo elettorale.
Renzi conosceva perfettamente lo statuto del partito a cui ha aderito e che gli ha consentito di diventare sindaco di Firenze, così come Favia era a conoscenza del non-statuto del M5S, a cui deve, stando rigorosamente al suo curriculum, tutto.
Eppure l’ambizione, grande in un caso, molto piccola nell’altro, cancella evidentemente ogni ricordo.
Non può tuttavia impedirci di riflettere su quanto a fondo sia penetrata in ogni angolo della politica italiana la cultura berlusconiana dell’assoluta indifferenza alle regole condivise, del primato della volontà individuale sui limiti collettivi, della costante imposizione del fatto sulla norma, sempre ridotta ad orpello insignificante.
Potendo sempre contare sulla grancassa offerta da un apparato mediatico immediatamente pronto a premiare chi sorpassa in corsia di emergenza, perchè non si può dare torto a chi ha forza e desiderio di correre.
Si tratta di liberismo antropologico, di chi sogna fughe solitarie in avanti senza lacci e lacciuoli, di pallida mimesi del titanismo berlusconiano, che era sorretto da potere reale, mentre qui si rivela solo volontà di impotenza, di narcisismo che sfrutta la debolezza della politica per imporsi sorretto dalle voci dei padroni.
Che si cerchi una cuccia calda o palazzo Chigi poco conta, perchè l’atteggiamento è lo stesso e si rivela di destra nel profondo, volto com’è a disarticolare le regole che, brutte o belle che siano, fanno di una muta una comunità.
Si potrà provare finchè si vuole a convincermi che Renzi è il giovane capace di ribellarsi ad una nomenklatura mummificata, o Favia il rivoluzionario oltre il dispotismo del padre-padrone e del padrino.
Per me resteranno due gocce insapori di ambizione e opportunismo in un bicchiere vuoto.
Detto questo, del grillino pentito non varrà più la pena di parlare.
Renzi lo sconfiggeremo nelle primarie, per la ragione semplice che le idee che propone rottamate lo sono già e non valgono nulla nemmeno come pezzi di ricambio.

domenica 9 settembre 2012

L'Europa, l'agenda Monti e il centrosinistra


Scalfari nel suo domenicale su Repubblica esprime apertis verbis un consiglio funereo alla sinistra italiana.
Chiedere rapidamente gli aiuti europei, così da commissariare il paese e rendere l’agibilità democratica del futuro governo paragonabile a quella di chi debba scegliere se condire la pasta al sugo con menta o prezzemolo.
Questo accade nello stesso giorno in cui il Corriere della Sera cuce e ricuce un sondaggio sul futuro della politica nazionale per annunciare che quattro italiani su dieci sarebbero favorevoli alla riproposizione di un governo tecnico.
Casini a Chianciano ripropone naturalmente la stanca litania del Monti dopo Monti, e possiamo scommettere che questo rilancerà il dibattito sul futuro politico del Professore.
Tutto questo non è naturalmente un complotto, ma semplicemente il progressivo concretizzarsi di un progetto politico, che spinge a focalizzare il dibattito politico italiano, e di conseguenza gli schieramenti elettorali, lungo la direttrice del giudizio sull’Europa, intesa non come spazio politico aperto al cambiamento, ma come rigida costituzione materiale del rigore neo-liberale.
Da questa impostazione il centro-sinistra deve avere la forza di stare molto lontano, perchè sarebbe la sua fine e la fine di ogni possibile ambizione alla trasformazione del paese.
Ci sono, è vero, alcuni elementi certi.
Il primo è che l’Italia, come l’Europa, sia attraversata da pulsioni neo-nazionaliste, interpretate per lo più a destra, ma non di rado a sinistra, capaci di raggiungere importanti risultati elettorali, individuando i responsabili della crisi sociale, economica e politica nelle tecnocrazie di Bruxelles e Francoforte.
Ne sono esempio in Italia il M5S e la Lega, accomunati tra l’altro dalla richiesta di un referendum sulla moneta unica, così come a sinistra chi chiede la denuncia unilaterale del fiscal compact.
Il secondo è che la vittoria di Mario Draghi nell’imporre la possibilità di acquisto illimitato di titoli di Stato da parte della BCE, senza che questa sia considerata un creditore privilegiato, pur in un contorno di condizioni molto rigide, cambia significativamente il quadro europeo e, se possibile, costringe anche ad un giudizio più fluido sul governo Monti.
Se infatti fino a ieri non era possibile trarre alcun bilancio positivo delle politiche recessive dell’esecutivo dei tecnici, mentre erano sotto gli occhi di tutti l’aumento della disoccupazione e delle ineguaglianze sociali, il via libera della Germania ad un’interpretazione sempre osteggiata dei poteri della BCE è un risultato oggettivo che permette di guardare con maggior serenità al futuro continentale.
E’ tuttavia necessario evitare di trarre da queste due considerazioni l’idea che l’agenda Monti sia quindi l’unica strada possibile per gli europeisti italiani, dato che chi vi si oppone punta le proprie carte sul ritorno alla piena e assoluta sovranità nazionale, traendone la conseguenza ultima che gli europeisti debbano convergere fra loro adottando l’agenda Monti come programma elettorale e di governo, come appunto suggerito da Scalfari e dal Corriere, ma anche da D’Alema e parti importanti del PD, che traducono questa formula nell’alleanza PD-SEL-UDC.
Tornare alla politica significa invece avere il coraggio di affermare che il governo Monti ha rappresentato una proposta autenticamente europeista di uscita dalla crisi, ma una risposta di destra, e che quindi deve e può esistere una risposta di sinistra altrettanto franca e leale sul tema della continuità dell’esperienza della UE.
Cosa sarebbe d’altronde l’agenda Hollande se non questo?
E quale dovrebbe essere il primo compito della sinistra italiana che guarda all’Europa, se non quello di liberare dalla solitudine la Francia socialista?
L’Italia, nonostante la crisi economica e di identità in cui si dibatte, nonostante vent’anni di ostinate politiche volte a collocarla nella semi-periferia del mondo, non è un paese secondario nella UE. 
E’ il terzo contribuente al bilancio comunitario, la seconda economia manifatturiera, il quarto paese per numero di abitanti.
Questo ha determinato una forte esposizione all’urto della speculazione finanziaria, ma ci impone anche la responsabilità di affrontare le prossime elezioni pensando a quale ruolo assumere da protagonisti, e non da paese destinato ad un eterno commissariamento.
Essere europeisti significa esattamente questo. 
Abbandonare ogni ambiguità sulla volontà di fare ogni sforzo per mantenere la stabilità del continente e della moneta unica, ma allo stesso tempo essere consapevoli che la direzione da prendere è quella del rilancio dei veri pilastri della civiltà europea, l’aspirazione a solidarietà ed uguaglianza e quindi il welfare state.
Su questo l’agenda Monti non può avere nulla da dirci, ma su questo si giocherà il futuro della sinistra italiana e continentale.
Sarà bene averlo presente nei prossimi mesi.

sabato 8 settembre 2012

Bersani, Renzi e l'alternativa possibile


A Matteo Renzi va riconosciuta una cosa.
Ha avuto il coraggio di lanciare una sfida aperta al complesso gioco di equilibri che regge e incastra le grandi e piccole nomenclature del PD, anche se va ricordato che ha immediatamente ricordato di volerci poi rientrare da protagonista, chiedendo un riequilibrio del partito sulla base dell’esito delle primarie.
Il gioco della rottamazione, ridotto al suo nocciolo essenziale, è in fin dei conti questo. Costruire una corrente che prima non c’era sulle ceneri di quelle già esistenti, andando oltre e riaggiornando la geografia interna del PD, ancora direttamente determinata da cordate ereditate dalla prima repubblica.
Comunque vadano le cose, le primarie per il Partito Democratico saranno quindi uno shock, perchè sull’onda di una guerra lampo dai contorni incerti salteranno o saranno messe in discussione molte rendite di posizione accuratamente costruite e custodite.
Questo lo hanno capito bene i renziani, all’attacco con ambizione, e il resto del mondo, stretto attorno a un Bersani trasformato suo malgrado nel rifugio peccatorum dei conservatori.
E’ un paradosso, ma una parte delle primarie, che decideranno il futuro del centro-sinistra, si giocherà quindi secondo il più classico degli schemi da congresso di partito, con l’obiettivo del rinnovamento dei gruppi dirigenti sopravanzante, e di molto, la contesa sulla proposta politica.
Il problema è che questo schema trova terreno fertile in un paese in cui da tempo il neo-conservatorismo impone la chiave di lettura per cui all’origine della crisi non starebbe lo spartito, ma gli interpreti.
E’ un gattopardismo 2.0, in cui è necessario che i volti cambino, perchè nulla cambi negli equilibri reali del potere italiano.
Renzi è un giovane blairiano fuori tempo massimo, Bersani un vecchio socialdemocratico di ritorno.
Renzi interpreta una proposta politica che in qualsiasi sinistra europea è abbandonata nell’armadio degli errori fatti, ma non appartiene a “quelli che in questi 20 anni hanno distrutto l’Italia”.
Bersani insegue zavorrato dai tanti Letta del PD la linea di Hollande, ma era lì, presente e protagonista negli anni della gogna, e con lui la lunga litania dei suoi sostenitori.
Chi pensa che prima o poi nella contesa i contenuti si imporranno decisamente sui narratori non ha letto nulla del contesto costruito dalla grande stampa, non si è interrogato sulle ragioni insieme profonde e superficiali dell’esplosione del M5S, non ha riflettuto abbastanza su quanto profonda sia la crisi di credibilità della classe politica.
Nichi Vendola, che si vuole emarginato in primarie trasformate in un congresso-OPA del PD, può intervenire a questo punto del discorso.
Non ha mediazioni al ribasso da cercare sul piano dei contenuti, non ha un partito da offrire come terreno di conquista, può esibire nodi di classe dirigente qualificata e non compromessa.
Può incarnare insieme la pienezza della proposta dei progressisti europei e un’ipotesi di cambiamento da sinistra del paese, ma anche l’idea vitale che queste possano innestarsi su una nuova generazione prestata alla politica.
E’ in sintonia con la modernità della crisi molto più di quanto lo sia Renzi, con il suo montismo superficiale, i suoi Marchionne e Ichino, la sua ambizione debole a continuare la farsa del potere impotente.
Ma può anche essere il grimaldello che scioglie i nodi del sistema linfatico bloccato della sinistra italiana, tanto odiato perchè specchio di un paese incapace di offrire le più elementari opportunità, inchodato nelle logiche dell’attesa e della cooptazione.
Non ha bisogno di rottamare nessuno, perchè il suo obiettivo non è fare spazio nel PD a gente stanca di prendere la rincorsa senza avere il coraggio del salto, ma può con educazione indicare a molti la strada di un meritato riposo.
E poi, a questo punto, rischia di essere l’unico in grado di salvare le primarie dal PD e il PD da se stesso.

domenica 2 settembre 2012

I populismi sono un avversario. Ma il Fronte di chi vi si oppone un errore.


L’Italia politica di oggi è attraversata da tre linee fondamentali di frattura.
La prima attiene al giudizio dato sul tragitto di unificazione europea e sulle sue progressive  acquisizioni, fra cui la moneta unica e le attuali istituzioni comunitarie.
Esistono forze politiche per cui l’Unione Europea è un bene più o meno perfettibile, ma comunque da salvaguardare ad ogni costo, e altre per cui il prezzo imposto dalla perdita della piena sovranità nazionale è già troppo salato, o prossimo ad esserlo.
In mezzo non sta nessuna virtù, dato che l’UE è evidentemente a rischio di sopravvivenza, e questo rende le possibilità di esercitarsi in adesioni condizionate pressochè vicine allo zero, perlomeno per chi ambisca ad un ruolo politico di governo.
La seconda riguarda il valore che si attribuisce alle istituzioni repubblicane, con particolare riferimento a quelle rappresentative e di garanzia, e quindi in ultima istanza alla Costituzione del 1948.
Anche in questo caso si muoviamo in un edificio pericolante, bombardato dalla mala politica e dagli scandali, sottoposto da anni ad un pesante attacco mediatico, in crollo verticale di credibilità agli occhi dell’opinione pubblica.
Da destra a sinistra, non si contano gli attacchi al Parlamento, alla Magistratura, alla Corte Costituzionale, alla Presidenza della Repubblica.
Berlusconi condivide con Grillo la capacità di sparare a 360°, Di Pietro risparmia le procure, la Lega nega l’intero impianto costituzionale.
La terza linea di frattura riguarda la politica economica, i diritti civili e sociali, il rapporto con la civiltà del welfare. Divide, in altre parole, la destra dalla sinistra secondo il più classico degli schemi.
La difficoltà di lettura dell‘attuale fase politica italiana, soprattutto con le lenti della sinistra, deriva dall’impossibilità di ridurre alla terza linea, la più rassicurante, il dibattito su programmi e alleanze, e persino sull’identità.
Per semplificare, fino a che punto è possibile costruire un rapporto con forze che condividano la necessità di una svolta nella politica economica, ma che allo stesso tempo si esercitino nel tiro al piccione contro le istituzioni, o ritengano un tema secondario quello dell’integrazione europea?
O al contrario, che tipo di relazione instaurare con chi sia schierato in difesa dell’Europa e della Costituzione, ma allineato alla continuità con il rigorismo e liberismo di Monti?
Rispondere che il tema non si può porre in questi termini è sbagliato, perchè è esattamente in questi termini che viene e sarà posto, soprattutto dagli avversari del cambiamento.
Si cercherà di unificare le due prime linee di frattura, e di farne la discriminante fondamentale della prossima competizione elettorale, mettendo la terza sullo sfondo.
Si cercherà di affermare che lo scontro è fra chi rispetta la dignità costituzionale e il futuro europeo dell’Italia da un lato, e chi è pronto al doppio salto nel buio dall’altro.
A partire da questo, si sosterrà che non è poi così rilevante cosa si pensi di ogni altra cosa, perchè ogni altra cosa passa in secondo piano rispetto alla difesa della democrazia e del comune destino continentale.
E nel dire questo non si avrà del tutto torto, perchè non si parlerà di questioni facilmente derubricabili come secondarie, ma al contrario di temi realmente centrali per l’opinione pubblica interna e continentale, che già si sono affacciate con durezza agli albori del governo Monti, quando tutti fummo interrogati su come mettere in salvaguardia le istituzioni offese dal berlusconismo e la stabilità finanziaria del paese.
Non a caso, è bene ricordarlo, il nuovo esecutivo godette di una larghissima apertura di credito, che coinvolse anche le forze della sinistra, e la stessa IDV, che votò la fiducia in Parlamento.
La sfida per la sinistra è quindi oggi invertire questa logica e costruire un’agenda e una proposta politica che, senza negare parole e atteggiamenti chiari sulle prime due linee, si concentri sulla terza, e su questa definisca se stessa e si rapporti con il paese.
Affermando con chiarezza che il populismo è un avversario, ma che la sua sconfitta passa non per un rassemblement di chi vi si oppone, ma per la capacità di restituire fiducia, speranza e futuro ai milioni di italiani che ne sono stati privati, a partire dal diritto al lavoro e dalla sua dignità.
Questo si può fare solo da sinistra, perchè il centro di ogni colore ha già avuto la sua occasione, con i risultati che conosciamo.

domenica 19 agosto 2012

L'ILVA è il passato o il futuro dell'Italia?


La vicenda dell’Ilva misura il livello della crisi italiana, molto più di quanto facciano le statistiche sul crollo del PIL, sulla crescita della disoccupazione e del precariato, sul calo dei redditi e l’erosione del ceto medio.
O per meglio dire, illumina tutti questi dati di una luce diversa, scoprendo un paese lontano da quello che ancora sopravvive nell’immaginario nazionale.
In un paese del G7 non dovrebbe esistere un caso ILVA, non si dovrebbe nemmeno contemplare la possibilità di un conflitto da anni ’70, in cui il diritto alla salute di un intero territorio venga fatto scontrare con la continuità del lavoro.
Questo perchè quella voce negletta del bilancio nazionale, gli investimenti in bilancio e innovazione, è esattamente il vettore che consente di adeguare le ragioni di un’economia industriale alle esigenze di tutela ambientale proprie di una società sviluppata.
L’industria di base non è scomparsa da Germania, Francia, USA, Giappone, per scaricare tutte le proprie esternalità sui paesi emergenti.
Ha certo ridotto i propri volumi, ma si è evoluta, alzando il proprio livello di sostenibilità.
In Italia questo non è accaduto. In Italia la scelta si è giocata fra smantellamento di interi comparti produttivi e loro mantenimento in condizioni inalterate.
In Italia la Thyssen Krupp, la stessa Thyssen Krupp che in Germania è all’avanguardia nelle condizioni di sicurezza del lavoro, può condannare a morte 7 operai per la mancanza di estintori.
In Italia l’ILVA può porsi il problema di eludere o evitare l’abbattimento dei livelli di inquinamento, perchè può contrattare in termini ricattatori le condizioni della propria presenza.
Qui sta il problema per la politica.
Se la produzione di acciaio è un interesse nazionale, così come l’industria dell’autotrasporto, e si può convenire che lo sia, questo deve valere in entrambe le direzioni.
Si dovrà garantire il mantenimento dei presidi industriali, ma questi non potranno avere il potere di ricatto che pretendono di mantenere.
Non può valere il principio che se all’Italia serve l’acciaio allora questo potrà essere prodotto solo alle condizioni dettate dalla proprietà degli stabilimenti, perchè questo percorso logico è esattamente il contrario della tutela dell’interesse collettivo, che pretende invece che proprio laddove sia più alto il valore strategico di una produzione debba e possa essere più forte il potere di condizionamento pubblico.
Dopo di che, che le classi dirigenti italiane, economiche e politiche, abbiano perseguito nell’ultimo ventennio una cosciente e coerente operazione di declassamento del paese, con l’ambizione di abbassarne gli standard sociali e produttivi, è ormai un segreto di Pulcinella.
Ora Bersani dice che il tema centrale debba diventare la ripresa di una capacità di politica industriale. 
Bene, io sono per prenderlo in parola e rilanciare.
In Italia i ceti possidenti hanno sempre saputo fare solo una cosa, sfruttare rendite di posizione fino al loro esaurimento.
Oggi l’esaurimento è prossimo, e noi dobbiamo decidere se arrenderci definitivamente al declino e accettare di essere un ricco paese della periferia, dove la ricchezza è naturalmente concentrata nelle mani di pochi, o provare a recuperare un ruolo che che ci è stato proprio, all’interno della cornice europea.
All’Italia andrebbe però detta la verità, andrebbe spiegato se l’ILVA, così come la FIAT di Marchionne, è un residuo del passato da portare rapidamente nella modernità, o l’anticipo del nostro futuro, come tutte le scelte degli ultimi anni farebbero pensare.
Detta la verità, la sinistra avrebbe l’obbligo di elaborare una proposta di rilancio che passi per lo sblocco delle rendite attraverso la tassazione e per una stagione di investimenti pubblici nei settori chiave dell’economia, nonchè per un rafforzamento dei diritti, e quindi del potere d’acquisto, dei lavoratori.
Se suona vecchio, è solo perchè l’attualità del mercato all’italiana è quella che ci ha portati al punto in cui siamo.