sabato 29 ottobre 2011

Frane

Non si dovrebbe mai guardare il mondo lasciandosi trasportare dalla suggestione dell’unità del tutto, che lega in un unico universo mistico fatti, sensazioni, uomo e natura.
Eppure è difficile resistere alla tentazione, quando tutto intorno a te smotta e frana, e l’immagine devastante del fango che trascina e sommerge angoli di pura bellezza diventa il segno profondo del paese.
Non i cambiamenti, ma l’assenza di cura, di memoria e di ansia serena di futuro hanno prodotto uno squarcio nelle 5 Terre liguri e nelle mille italiane che ogni giorno corrono lo stesso rischio.
Che non è diverso da quello delle lavoratrici e dei lavoratori italiani, che da ieri si vogliono abbandonati all’onda di piena della crisi globale, liberi di essere licenziati e trascinati a valle.
Né è diverso da quello dei milioni di precari, che come la terra privata di radici a valle sono già arrivati, intorbidendo le acque e facendole pesanti.
Ti accorgi del fiume quando rompe l’argine, se hai smesso di pensarti in sintonia con lui.
Se hai permesso che la scuola, i servizi sociali, la sanità, gli alberi pesanti che affondano nella terra e la trattengono venissero progressivamente ridotti a cespugli, e passivamente hai abbandonato la Politica, che prima di ogni altra cosa è cura della relazione, è radice reticolare che compatta e vive nella comunità e le permette di essere porosa, di assorbire la pioggia, anche quando batte con violenza.
Così guardi la democrazia, e se ti sembra solida nei suoi riti, aggrappata a 316, famigerati voti, non ti accorgi che è la zolla su cui poggia a scricchiolare, pronta a scivolare con fragore.
Avere cura, si diceva, per non maledire il cielo mentre si umilia la terra. E’ nostra la responsabilità di rafforzare gli argini, pulire i fiumi, ripristinare equilibri e restituire forza a chi ne è stato privato. Poi il cielo farà la sua parte.

martedì 25 ottobre 2011

Un Governo, meglio prima che poi

Scriveva domenica Eugenio Scalfari che Vendola e Casini dovrebbero accettare la scommessa di una legislatura che sia insieme di decantazione e costituente, che permetta di smaltire le tossine del berlusconismo e quindi di disegnare un nuovo bipolarismo, per poi sfidarsi successivamente nelle urne.
Scriveva questo invocando il ricordo di Moro e dell’unità nazionale, affidando alle parole dello statista democristiano il richiamo ad un’etica superiore della politica, che sabbia andare oltre le divisioni quando sia in gioco la salute della democrazia.
Tutto molto bello, e sintomatico di un’Italia incapace di ammettere l’esistenza del berlusconismo se non in termini di ordine pubblico e in perenne ricerca di ispirazione nel passato.
Si finge così perennemente di ignorare che Berlusconi esiste e gode tuttora di una dote di consenso sufficiente a mantenerlo nel ruolo di protagonista della destra italiana, seppure probabilmente al prezzo di condizionarne le possibilità di successo elettorale.
In Italia non esiste una destra normale cancellata dall’anomalia berlusconiana.
Esiste una destra incredibile nel suo florilegio di leghismi, nazionalismi d’accatto, soggiacenze clericali, vezzi anti-religiosi, opportunismi, nostalgie, impastati e tenuti insieme da dosi micidiali di cinismo, compiacenze e complicità. 
Di questa destra Berlusconi è stato insieme forgia e interprete, le ha dato mezzi e missione, se ne è fatto non leader ma sovrano, e come tale lascerà un regno alla sua morte.
L’idea che la sconfitta di Berlusconi ne determinerà l’uscita di scena e consentirà ad un nuovo raggruppamento moderato e presentabile di raccoglierne senza fatica l’eredità elettorale appare pertanto lunare, con buona pace di Casini, la cui unica, reale chance di sopravvivenza politica appare legata al mantenimento dell’attuale legge elettorale, o meglio ad una sua riforma in senso ulteriormente proporzionale. 
Lo sa bene la Chiesa cattolica, che pur sfibrata moralmente dal berlusconismo, non ritiene praticabile nel quadro dato alcun
 significativo investimento su un’alternativa, che viene preparata e congelata per tempi migliori.
Né tiene il paragone forzato con la stagione del compromesso storico. Vendola e Casini sono leader di due formazioni di media grandezza dal profilo fortemente connotato, e non di due partiti di massa presenti in ogni ambito della società. 
Possono orientare e ambire a guidare una coalizione, ma non pensare con la loro sola presenza di rappresentare l’intero corpo sociale del paese. 
Ma soprattutto il coma irreversibile della seconda Repubblica non ha nulla a che vedere con le convulsioni che sul finire egli anni ’70 già scuotevano implacabili la prima, né la crisi economica attuale può essere paragonata a quella generata nello shock petrolifero. 
Sono diverse le prospettive e le dinamiche sociali. 
Sotto molti aspetti lo stato odierno delle cose è il conto che paghiamo alle scelte di allora, prima fra tutte quelle di combattere con il neo-liberismo l’esaurimento del dinamismo keynesiano.
Ecco quindi che non ci libereremo del berlusconismo affidando alla sinistra il ruolo di levatrice di una inconsistente destra moderna e liberale. 
Ce ne libereremo se la sinistra saprà con forza proporre e praticare la strada vera di un’alternativa, lasciando che la destra consumi nel conflitto politico le proprie contraddizioni, salvando il bipolarismo e con esso la possibilità di un confronto aperto sul futuro con il popolo italiano.
Di questo, e solo di questo, abbiamo bisogno, perché la seconda Repubblica è morta senza mai essersi liberata dell’ingombro della prima, e la danza macabra si consuma sulla scena di una crisi economica aperta ad ogni esito. Decisamente non è una costituente che ci serve, ma un Governo. 
In nome del popolo sovrano. 

domenica 16 ottobre 2011

Due scogli neri in un fiume in piena

Venerdì l’immagine oscena degli applausi e abbracci in Parlamento a celebrare la sopravvivenza di un governo in stato vegetativo. 
La vita per la vita, nell’ossessionata riproduzione dell’adagio andreottiano che celebra la sovrana indifferenza dell’istituzione per tutto ciò che accade all’esterno delle proprie liturgie, dimentica dell’essere la sovranità altrove, e quindi implicitamente sovversiva, nella pervicace volontà di separare forma e sostanza della democrazia. 
Le risate di chi celebra nel trionfo di una fiducia sul nulla la propria conferma nel luogo di un potere impotente altro non sono che lo sberleffo in faccia al popolo sovrano.
Ieri le fiamme nel cielo di Roma, il suono sordo della guerriglia ritmato da bombette e lacrimogeni, gli assalti e le cariche, sanpietrini e manganelli, l’intera coreografia di un altro rito, quello dell’Attacco al Potere, che è sempre in questo paese miserabile scontro con le forze di polizia, due passanti, quattro vetrine, dodici auto. 
E, senza averli letti, editoriali sui cattivi maestri della sinistra, sull’incapacità del ministro dell’interno, su presunti infiltrati, sulle corresponsabilità di chi ha taciuto, le richieste di condanna incondizionata, le professioni di non violenza, chi sono i black block, la distanza dal movimento. Il dibattito sul servizio d’ordine.
Ieri milioni di persone nelle piazze d’Occidente, che hanno dato corpo a un sentimento collettivo che potrà cambiare la storia, se saprà farsi politica, se saprà scegliersi la parte, oltre i pelosi consigli e suggestioni di chi, accucciato ai piedi del potere, accarezza la tentazione dell’estraneità, plaude alla bellezza dell’orizzontalità che nemmeno sfiora le travi ben verticali del comando. 
C’è una richiesta che agita il mondo e si chiama democrazia, quella di chi non l’ha mai avuta e quella di chi la conserva scritta nelle proprie Costituzioni, ma se l’è vista sottrarre mentre veniva irretito da una politica ridotta a palcoscenico. 
La democrazia, che è resa incondizionata del potere alla libertà e sovranità dei popoli, ma insieme possibilità reale di cambiamento, primato vero della politica sull’economia, e non ancella impotente. 
Per qualcuno è un percorso sanguinoso di conquista, come ci insegnano le piazze del Mediterraneo, per altri un cammino di riappropriazione, che passa anche per la bandiera a stelle e strisce piantata in faccia a Wall Street. 
Per noi italiani è la capacità di riconoscerci, oltre il gas esilarante, ottundente, allucinogeno che realmente da troppi anni riempie le strade di questo paese. 
Fare aria, guardarci in faccia, leggere con calma tutta la Costituzione, riconoscere le macerie alle nostre spalle, perdere pochi minuti a chiederci come sia possibile addormentarsi con i volti di Berlinguer e Pertini e svegliarsi con quelli di Bossi e Berlusconi, e poi alzarsi. 
Indignati, ma neppure troppo. Soprattutto determinati a cambiare l’Italia e l’Europa, a riprenderci tutto quello che ci è stato rubato. 
Politica, Parlamento, Diritti, Lavoro, ridotti a surrogato ma non ancora svaniti.
E poi Sinistra, che sarà pure termine desueto, sconosciuto ai più, ma che è invece la scelta antica e la bandiera di tutto ciò per cui ci battiamo e per cui tanti si batterono per consegnarci un mondo migliore di quello di oggi. 
Ci sono tante cose di cui il movimento italiano vorrà discutere da oggi. 
A queste ne va aggiunta una, fondamentale, e sono le primarie, come scelta di campo, come strada collettiva verso il cambiamento, come via di riappropriazione immediata della politica. 
Perché, per dirla chiara, l'affermazione di Nichi Vendola nel campo largo dell'opposizione é l'unico evento da cui può passare qui ed ora, al di la di recinti e opportunismi, una scossa per l'Italia.
Per sottrarla alle mortifere fotografie dei giorni scorsi. 
O si vuole, ancora una volta, lasciarla ad altri?

giovedì 13 ottobre 2011

Una mela indigesta

Ho letto qualche tempo fa, a Steve Jobs vivente, che Barack Obama aveva ordinato di riorganizzare su base Mac l'intero sistema informativo della Casa Bianca. 
La ragione della scelta era il tentativo di collegare ad un brand di successo l'immagine di un presidente in difficoltà.
Comprensibile e molto "americano". 
Oggi una federazione importante del mio partito ha diffuso un manifesto in morte di Steve Jobs, con il taglio a mela morsicata del simbolo di SEL. Critiche di ogni tipo e da ogni direzione, con intervento riparatore finale di Nichi Vendola. 
SEL riconosce il genio creativo di Jobs, ma la sua parte è quella del software libero. 
Potremmo aggiungere che stiamo con il lavoro sfruttato e che una multinazionale non è esattamente il nostro modello organizzativo. Oppure indugiare sui lati oscuri del caro estinto. 
Tanto per stroncare in modo inappellabile l'iniziativa romana di SEL. 
Che tuttavia centra forse involontariamente un punto.  
Steve Jobs non ha inventato nulla di rivoluzionario, ma é stato un maestro nel trasformare oggetti di uso comune in crogioli emozionali, in reliquie pop. 
Sbaglierò, ma l'impressione è che i milioni di i-devices che affollano il mondo appartengano alla sfera dei frammenti della vera croce che attraversavano il medio evo.  Condensati portatili del Mistero, dove il mistero è oggi quel futuro sempre inafferrabile.  
E se il prete teneva in tasca l'amuleto, e l'ateo ben nascosta addosso una croce, i partigiani del cambiamento del XXI secolo possono pur versare una lacrima per chi ha donato loro l'Iphone. Certo, magari in privato.

PS: ho scritto questo post non perché ritenga serio il tema, ma perché é la massima serietà concessa dal mio stato influenzale.

domenica 9 ottobre 2011

Stavolta abbiamo taciuto

Chissà cosa avranno pensato della loro città i bronzi di Boldrini e Zaccagnini, voluti sentinelle delle nostre istituzioni. Cattolici e comunisti, resistenti e partigiani, cosa avranno pensato in queste settimane in cui Ravenna sembra scivolata lentamente nell'indifferenza e nella resa ai piccoli sentimenti del fastidio, del rancore, di un'epidermica intolleranza?
Nulla di grave, per carità. La rivolta vera o presunta di un quartiere contro la scelta di una chiesa di ospitare due tende per i senzatetto. L'ondata vera o presunta di paura per un numero imprecisato di profughi forse tunisini e si dice dediti a spaccio. La scelta di un grande centro commerciale di incontrare il disagio vero o presunto dei suoi clienti davanti alla richiesta di elemosina a mezzo carrello. L'ennesima ordinanza anti-degrado, che poi significa anti-alcol, che poi diventa anti-vetro, che poi diventa non-si-puó-dire-cosa, nel momento in cui chi l'ha emessa ne affida l'esecuzione al Buon Senso dei vigili, alla faccia di qualche secolo di civiltà giuridica. E poi, si dice, non vi preoccupate. Prima o dopo se ne andranno, anzi abbiamo già la data di scadenza, presunta naturalmente. Sono tutte cose già viste e sentite nei paraggi. Eppure fanno un po' impressione messe tutte insieme, fa un po' impressione l'ultimo mese di cronaca cittadina, perchè si tratta appunto di cronaca, in assenza di dibattito pubblico, di prese di posizione, di intervento politico. È tutto nebbioso ciò di cui si parla, ma ciò che alla fine risulta presunta è la cultura solidale della nostra città, che si smarrisce nel silenzio, nella fatale assunzione dei problemi e nella resa dell'indifferenza. È normale temere i senzatetto, voler fare la spesa in pace, fregarsene dei profughi e non volerli attorno. Per tutto ci sono piccole, pulite soluzioni, accomodamenti indolori. Tutto si puó spostare, rimuovere, allontanare. Senza proclami razzisti, perchè mica siamo leghisti. Con calma, per approssimazione. È così che improvvisamente, un giorno ci scopriamo vecchi, evitando per anni con cura di guardarci allo specchio, e incappando per caso nel riflesso di una pozzanghera. Stavolta abbiamo taciuto, e questa più che una colpa è un sintomo. Ma chiedo alla sinistra se non sia il caso di ricominciare a parlarci.