mercoledì 28 settembre 2011

Un nuovo Aventino

A questo punto la domanda è se cadrà prima Berlusconi o la democrazia italiana. Sbaglierò, ma ho la netta impressione che giorno dopo giorno, scandalo dopo scandalo, declassamento dopo declassamento la totale squalifica del governo scivoli sull'intero sistema politico, con il serio rischio di franare poi come una slavina sull'intero quadro istituzionale.
Non sarebbe d'altronde una novità.
Ci sono infatti due cose che un sistema non può sopportare, ovvero un eccesso di distanza simbolica fra governo e popolo e l'evidenza vera o presunta dell'incapacità di affrontare le sfide del tempo.
Che l'attuale governo sia totalmente inadatto, impreparato, lontano da qualsiasi abbozzo di risposta alla crisi economica è un elemento rapidamente entrato nel senso comune. Che il nostro contesto politico e istituzionale non riesca a sbarazzarsene, ma debba piuttosto assistere impotente alla dichiarata volontà di durata fino al 2013, che è come dire fino all'eternità, è invece il tema che dovrebbe destare più preoccupazione.
La vera forza della democrazia è infatti non solo la possibilità di eleggere il proprio governo, ma anche e soprattutto quella di rovesciarlo senza traumi quando questo si riveli non più in sintonia con la realtà.
Se questo secondo elemento salta, la democrazia si squalifica con eccezionale rapidità.
Il fatto che il parlamento si occupi a giorni alterni di imporre disordinati sacrifici al paese e di giudicare secondo opportunità politica se autorizzare o meno la carcerazione di un suo membro non puó d'altronde che produrre un'accelerazione di una crisi di legittimità in cerca di sbocchi.
Con il rischio appunto che lo schifo per Berlusconi tracimi al disgusto per un sistema compresso in ritualità che ne impongono la permanenza.
Per paradossale che sia, siamo prigionieri del parlamentarismo, ovvero di un sistema costituzionale che vede nella mobilità e intelligenza politica delle due, non a caso, camere l'unico vero antidoto a situazioni come quella che stiamo vivendo, in assenza di qualsiasi pluralità dei livelli decisionali.
E quindi è il parlamento a caricarsi del peso insostenibile della propria impotenza.
Non è chiaro se a rappresentare meglio la maschera della politica sia il ghigno stanco e innaturale di Berlusconi o la smorfia tesa e in perenne ribasso di Bersani.
Bersani, che giorno dopo giorno si presenta afflitto al paese per informarlo che il governo sta trascinando a fondo l'Italia, ma che lui nulla può fare per impedirlo, senza comprendere che in questo modo passerà senza alcuna colpa dallo stato di vittima a quello di complice.
E allora io credo che oggi il centrosinistra abbia due urgenze.
La prima è nascere, al di là delle foto ricordo in stile Vasto, la seconda è farlo nelle piazze e strade di questo paese.
Abbandonare la lotta parlamentare per salvare il parlamento, poiché è evidente che tattiche e borbotti di palazzo non abbattono il sovrano, ma gli oppositori e con loro le istituzioni.
Un nuovo Aventino, che trasmetta l'idea di non voler più contribuire a mascherare con la propria presenza l'indecenza di un potere abusivo.
E insieme la nascita di una coalizione che con le primarie offra moralmente al paese il proprio governo, in attesa di insediarlo con le elezioni.
D'altra parte, un governo ombra già l'abbiamo e occupa Palazzo Chigi.

giovedì 15 settembre 2011

Lari e Penati

Immaginate un partito nato in un teatro sbrecciato per fare la Rivoluzione, che la Rivoluzione divenne anziché farla, per finire schiacciato dal peso lontano di chi quella Rivoluzione aveva fatto.
Quanto idealismo ci volle per tentare e quanto cinismo per resistere? Prevalse il cinismo progressivamente e non possiamo stupircene.
Ce ne voleva molto dopo Yalta, e Budapest, e Praga, e Kabul. Alla fine fu l'antidoto, sospetto, che permise di resistere all'89, che di quella Rivoluzione spense definitivamente anche il ricordo di ogni idealità.
Ci fu negli anni che seguirono chi abbracció il pensiero unico per colpa, per stanchezza, per convinzione, per liberazione, per desiderio di sopravvivenza.
In Italia si impose per vuoto di potere e bisogno di legittimazione, nella scomparsa all'unisono di chi il potere aveva sempre avuto e della legittimazione degli altri, che in sostanza era sempre stata in quell’altrove caduto.
Dove voglio arrivare con queste righe acerbe?
A Penati naturalmente.
Chi era Penati? Era il partito al Nord. E non lo era in quanto ricco di finanziamenti, nè in virtù di un oscuro quanto ipotetico sistema Sesto. Non si era comprato il partito, né credo altri lo avessero fatto per suo tramite. Semplicemente, temo, di quel partito era uno dei figli più brillanti, per quanto ora disconosciuto in poche ore.
Piaceva, Penati, perché sapeva essere lupo fra i lupi, perché intrecciava relazioni e rapporti, perché senza dubbio ci sapeva fare, e certamente, come usa dirsi, sapeva andarsi a casa.
Nello smarrimento di una sinistra subpadana lui aveva vinto oltre cortina, e questo senza dubbio doveva significare qualcosa. Esercita sempre un certo fascino chi pianta la bandiera in terra straniera e agli ufficiali al fronte certo non si fanno troppe domande, né ci si interroga troppo sul significato delle loro sortite e vittorie. E anche quando prima o poi suona la ritirata si concede l’onore delle armi e persino la gloria dello stato maggiore, soprattutto se quello stato maggiore è già ingombro di sconfitti.
In fin dei conti la vera ragion d’essere del centrosinistra che abbiamo alle spalle è l’adozione della sconfitta come forma mentis, dell’idea fissa che la vittoria appartenga all’avversario e si possa quindi ottenere essenzialmente sotto forma di mimetismo.
Se vuoi vincere devi sembrare come loro, se non vuoi sembrare come loro devi rassegnarti ad una vita di resistenza.
Penati era stato un maestro del camuffamento e aveva vinto nel cuore del campo nemico. Un maestro, degno di diventare il numero due del partito.
Per questo io credo che il problema non sia giudiziario, né etico, ma politico, e quindi non personale, ma collettivo, e chiami necessariamente in causa l’interezza di un gruppo dirigente, interno ed esterno al PD.
Oggi guardiamo Penati e siamo costretti a chiederci quanto abbiamo potuto renderci simili a ciò che avremmo dovuto e voluto combattere. Ci sentiamo stonati, esattamente come quando ascoltammo di essere in procinto di avere una banca, come quando ci indussero a sospettare Marchionne di santità e a vedere nella lega una nostra costola un po’ bieca. Come quando Craxi aveva ragione e, sottovoce, Berlinguer torto.
Ora io di sentirmi stonato ne ho abbastanza, ne ho abbastanza di perdere e di dovermi confondere.
Ho visto il mio paese trascinato a fondo dalle ricette dei vincenti e la sinistra smarrirsi nelle strategie dei cresciuti e allevati nel trauma della sconfitta.
Per questo e non per un ridicolo giovanilismo di maniera credo si imponga un urgente bisogno di ricambio dei gruppi dirigenti, che diventa tutt’uno con la necessità di un’alternativa politica reale.
I due temi si tengono e tanto più lo fanno ora che il precipitare della crisi, la sua traduzione rapidissima dal terreno dell’economia a quello della politica, impone il coraggio e l’immaginazione di una cesura con i dogmi e i valori del passato recente.
A partire dalla cinica rassegnazione all’impotenza della politica, alla sua riduzione a timida amministrazione dell’esistente.
Qualcuno si è fatto forte della resa, ne ha goduto, ha voluto persino impartirla come lezione. Altri l’hanno voluta apprendere con avidità, come fosse il segno del tempo. Ora quel tempo è finito. Ora tocca a noi.

giovedì 8 settembre 2011

Data di scadenza : ora

Sono stato la settimana scorsa al Tilt Camp, momento di riflessione politica collettiva a 360 gradi, caratterizzato da una forte connotazione generazionale. Bell’esperienza, partecipazione importante di giovani di ogni regione italiana, contenuti forti e partecipati.
Mi resta una domanda. Esiste una specifica questione giovanile in Italia, o almeno un determinato punto di vista generazionale sui problemi e le prospettive del paese?
Ammetto che può sembrare una domanda retorica o provocatoria, in un paese caratterizzato da uno spaventoso tasso di inoccupazione giovanile, da una generale assenza di prospettive di medio periodo, da condizioni proibitive di accesso a beni primari come la casa, da un’età media molto avanzata nelle posizioni di vertice in tutti i settori della vita associata.
E tuttavia, se affrontata in termini di rivendicazione degli ultimi e dei penultimi arrivati verso strutture e strumenti di potere che ne limiterebbero le potenzialità frustrandone le ambizioni, la questione mi sembra fuorviante.
Non credo infatti che i giovani in Italia siano particolarmente maltrattati, quanto piuttosto che scontino evidenze e contraddizioni di una struttura sociale profondamente mutata nel trentennio per scarto progressivo.
L’Italia viene da un lungo ciclo di riforme e interventi che hanno progressivamente favorito la rendita a scapito della base produttiva, alimentato la crescita delle disuguaglianze, determinato l’uscita o il mancato ingresso nei settori avanzati dell’economia industriale e quindi impoverito la base materiale del paese.
Lo ha fatto tuttavia non attraverso scelte traumatiche come quelle che in un decennio rivoluzionarono la geografia umana della Gran Bretagna, ma portando a scadenza le proprie cambiali sociali, salvo rinegoziare drasticamente le condizioni dei contratti futuri.
Ne ha ricevuto in cambio una relativa pace sociale, mentre tutto intorno si preparava un campo minato.
Oggi le giovani generazioni vivono la realtà del paese, mentre ciò che resta dei nati prima degli anni ’70 continua a scontarne una rappresentazione irreale, l’ultimo atto artefatto dell’Italia del boom economico e delle conquiste sociali prima della calata finale del sipario.
La crisi immette certo nel sistema alcune variabili impazzite, accelerando i tempi di irruzione della realtà, ma resta a ben vedere una crisi a due facce, con conseguenze diverse sui diversi attori sociali. Moltissima cassa integrazione per chi disponga di un contratto a tempo indeterminato, espulsione dal ciclo economico per i precari, danni ingenti per le imprese produttive, poche crepe nel sistema della rendita, soprattutto immobiliare.
Permane dunque una differenza fra chi possa godere del vecchio stato sociale e chi ne sia escluso, fra chi appartenga alla vecchia economia produttiva e chi goda i benefici dell’ultima economia predatoria.
Ciò che non dovrebbe tuttavia accadere è di confondere la coabitazione di due Italie con la loro compresenza, cadendo nello stereotipo di ipotetici conflitti fra giovani e meno giovani, garantiti e non garantiti.
L’Italia delle garanzie è infatti ad esaurimento, e la crisi non fa che accelerarne la data di scadenza. Il presente e il futuro sono l’altra Italia, quella del precariato come anticamera dell’impoverimento di massa, dei privilegi difesi con tenacia come unica ancora di sopravvivenza per categorie al tramonto, della fine rapida e dolorosissima del ceto medio, dei patrimoni erti a bastione di immobilismo sociale.
Parlare quindi di questione generazionale, dilatandone peraltro ormai oltre misura i limiti anagrafici, a me sembra fuorviante, quando in campo c’è invece una rinnovata e urgente questione sociale, di cui i nati negli ’80-’90 portano per intero il peso sulle spalle.
Perché è un curioso destino quello di essere avanguardie di futuro, quando quello che è stato disegnato per noi reca tutti i segni dello scadimento.
Come affacciarsi al mondo, vedere un volto inatteso e orrendo, e sentirci dire che quello è lo specchio del mondo che verrà.
Finisce che non si hanno colpe né responsabilità, ma tocca muoversi per cambiarlo il presente, prima che ci afferri e si confermi.
Il mezzo, piaccia o meno, è la politica, dove, sia detto per inciso, un problema generazionale esiste, nei livelli di responsabilità delle giovani generazioni, ma anche nella loro capacità di esigere per se stesse quei livelli, fino ad ottenerli.
Per quanto possa sembrare incredibile, la politica vive una tale debolezza da essere uno dei pochi campi realmente contendibili nella mappa della società italiana.
E’ una debolezza fatta tra l’altro di conformismo, obbedienza, opportunismo. Può sembrare la riproduzione fedele del lato più oscuro del paese, eppure, come dimostrano le migliori esperienze degli ultimi anni, può essere con facilità mutata di segno, se agitata dal virus del cambiamento.
Spetta ai giovani, alle donne, alle intelligenze e ai corpi offesi, ma spetta farlo ora, quando il treno della democrazia suona l’ultima campana.