sabato 30 luglio 2011

La mia Marina

Come tutti i ravennati frequento Marina da ben prima di aver raggiunto l'età della ragione.
Ci andavo poco più che bambino, quando era ancora possibile trovare un parcheggio in una domenica di luglio, ho visto i fuochi sulla spiaggia nelle notti di ferragosto, ho giocato a racchettoni prima che diventassero uno sport, ho visto pochi amici brindare con due birre al prezzo di una e poi valanghe di giovani riempire i nostri bagni, anche se nel frattempo le birre costavano il doppio, quando è nato mio figlio è li che l'ho portato a conoscere il mare.
Mi sono divertito, ubriacato, con e senza secchielli, e tante altre cose.
Credo che chiunque abbia 34 anni e sia nato a Ravenna potrebbe dire di aver vissuto le stesse esperienze e aggiungere ricordi e sensazioni.
Fra le altre cose mi capita di interessarmi di politica.
Questo comporta l'usura di interessarmi di ciò che la politica offre e, mi spiace dirlo, quando impazza il tormentone estivo su Marina mi cadono le braccia.
A Marina c'è casino. A Marina i giovani si ubriacano. A Marina la domenica c'è traffico. A Marina c'è tanta, troppa gente. A Marina mancano poliziotti, vigili e vigilantes.
A Marina la pineta è li dove ovunque in Italia è scomparsa. A Marina è possibile camminare in spiaggia di notte senza fari puntati da guardie e divieti. A Marina famiglie e giovani convivono serenamente. A Marina non ci sono cancelli che chiudono l'accesso al mare. A Marina è ancora possibile andare come si è, senza prima passare al negozio alla moda.
E a me questo piace, come credo a tante e tanti altri, che infatti continuano imperterriti a frequentarla, nonostante divieti incomprensibili.
È giusto che la politica si occupi di verificare il rispetto delle regole sull'inquinamento acustico, partendo dall'ovvia considerazione che una località turistica non è un quartiere residenziale, così come non si puó chiudere un occhio su situazioni conclamate di lavoro nero e evasione fiscale, perché l'economia della riviera non è più da secoli un settore marginale.
Allo stesso tempo sarebbe doveroso individuare un sistema di accesso, sosta e mobilità più razionale di quello esistente.
Poi la politica si fermi. Non le compete stabilire come io debba divertirmi, se possa o meno ballare, barcollare, sciamare, biascicare o gridare.
Non le compete esprimere giudizi di valore sul limite a cui desideri spingere le mie serate, purchè non esca dalla legalità.
Non le compete stabilire quale sia il sano o l'insano divertimento.
Anche perché non c'è nulla di peggiore di una politica che appaia tutta orientata a regolare la vita privata, mentre si dimostra impotente o distratta nell'orientare quella pubblica.
Ci si interessa al divertimento dei giovani quando la disoccupazione giovanile è al 30%.
Pensateci un attimo, e forse scoprirete che un fine settimana in riviera è il massimo a cui le nostre tasche possano aspirare. Per il resto, casa, famiglia, vacanze, c'é tempo.
O forse è finito, e alla fine non ci resterà che il mare d'inverno.

giovedì 21 luglio 2011

Genova per me

Forse è curioso, ma non ripenso spesso alle giornate di Genova 2001, e non certo per non averle vissute.
Ricordo i mesi che le precedettero, trascorsi in riunioni continue, letture iniziative.
Ricordo il 20 luglio, la morte di Carlo, il telefono impazzito, il pullman cambiato 100 volte nella notte, fra chi abbandonava e chi decideva di esserci, scossi entrambi dalla violenza dello Stato.
Ricordo il 21 luglio, il fumo urticante dei lacrimogeni, la fuga dalle cariche, i compagni dispersi, l'attesa angosciata dell'ultimo superstite al punto di raccolta, e poi il sollievo di esserci tutti, più o meno contusi.
E poi lo shock, quello vero, la telefonata di Fabrizio rimasto a Genova, che ci dava notizia dell'irruzione alla Diaz. Non era finita, non erano bastate le cariche, gli spari, la caccia all'uomo.
Ci voleva la rappresaglia, e ancora non sapevamo dei sequestri e della tortura fisica e psicologica.
I poliziotti non saranno mai nostri nemici scrivemmo il giorno dopo, mentre convocavamo in piazza a Ravenna chi c'era e chi non c'era per ritrovarci, denunciare, ricordare che non avremmo mai accettato il gioco cinico di un potere alla ricerca di un'opposizione a sua immagine e somiglianza.
In quell'affermazione stava tutto il nostro coraggio, se é vero che ancora molte e molti di noi provano moti istintivi di paura davanti a una divisa.
Poi venne Firenze, il movimento libero dall'assedio del G8, l'orgoglio di poterci mostrare per ciò che eravamo, ma nel frattempo molte cose erano già cambiate.
Il mondo era stretto nella spirale guerra-terrorismo, l'Afghanistan entrato nella quotidianità preparava l'Iraq, l'Italia già immersa nel suo decennio perduto.
Non lo sapevamo, ma presto il precariato avrebbe cessato di essere una vaga minaccia per diventare condanna di massa per una generazione, mentre già cominciava a mancare una settimana al calendario di troppe famiglie italiane.
O forse sapevamo già tutto, senza riuscire ad afferrarlo fino in fondo, a trasformarlo in politica, illusi, un po', che la politica vera fosse la nostra, quella che rifiuta il potere fino ad ignorarlo, nonostante ci avesse dato segni inequivoci della sua presenza.
Quando tornai da Genova a chi mi chiese cosa pensassi di quelle giornate risposi che la Storia, già dichiarata finita, era ricominciata.
Ne sono ancora convinto, così come lo sono della nostra ragione di allora, della nostra capacità di prevedere l'ovvio, ovvero l'insostenibilità assoluta del neoliberismo.
Purtroppo è sempre vero ciò che si dice del tempo e della politica e agli albori del millennio la nostra visione non riuscì a diventare egemonia.
Oggi siamo immersi nella crisi gravati dal peso del decennio perduto. Ma forse, finalmente, il nostro tempo è adesso.