lunedì 26 dicembre 2011

Favola di Natale


Tanto tempo fa viveva in questo paese un sovrano decadente e imbroglione, circondato da una sfacciata corte dei miracoli.
Regnava ma non governava, preoccupato dal tesoro del Re molto più di quello dello Stato, e tutt’intorno era un affaccendarsi di comparse arraffone, protagonisti per un giorno, luci della ribalta per l’esibizione del nulla, mentre la tempesta spazzava la terra, e rabbia, dolore e rivolta scuotevano il popolo.
Il Re era nudo da sempre, e fiero ostentava le sue nudità, e anche per questo da molti era amato.
Era un re brigante, un re giullare, un re senza corona.
Tanto tempo fa non pochi sognavano la Repubblica, e si battevano per averla.
Erano nostalgici di un passato opaco, visionari privi dell’ultimo miglio, volpi giovani e vecchie, pure qualche avvoltoio invecchiato.
Erano divisi e rissosi, ma avevano belle bandiere e amavano la verità.
E intorno a loro si muoveva commovente l’onda di un popolo che non si era mai arreso, che aveva ancora l’energia per l’ultima bracciata, quella che ti risolleva e non ti manda a fondo, che in riti spesso stanchi e spesso nuovi celebrava la propria forza ancora viva.
Non si viveva bene in quel paese incattivito da decenni di inviti alla solitudine, di porte sbarrate, di storie futili e perse in se stesse.
Ognuno per se e tutti dietro a me, era il motto del sovrano che aveva conquistato il paese.
Poi vennero i giorni del vento e della pioggia, del sole oscuro e dei lupi alle frontiere. 
Il popolo ebbe paura, si spaventarono anche i silenti, voci sempre più forti si levarono a chiedere uno scudo, protezione, la testa del Re se serviva.
Fu allora che il Grande Vecchio parlò, la Corte sparì, e arrivarono gli Altri.
Quelli che non c’erano mai stati negli anni del regno e della resistenza, quelli che avevano continuato i loro affari nelle banche, nei giornali, nelle università, quelli che non avevano preso parola nè insulti, quelli che nessuno aveva conosciuto e voluto.
Arrivarono e dissero che toccava a loro, e tutti o quasi dissero che era il loro momento. E chiamarono privilegi i diritti, per chi aveva sempre pagato annunciarono sacrifici, promisero un futuro di gioia dopo un lastrico di dolore. Come si conviene ai credenti.
Al popolo piacquero, perchè erano lontani da ciò che conosceva, e ciò che conosceva ormai perduto. 
Ma non ci furono feste nelle piazze, non c’era energia nell’aria da catturare, una nebbia ancor più spessa avvolgeva il futuro.
Da qui in avanti la storia è sconosciuta e aspetta di essere scritta.
Ma noi sappiamo cosa sarebbe servito a quel popolo. 
Avrebbe dovuto aprire gli occhi e riconoscere l’altro come fratello e compagno, e insieme a lui prendere per mano il cambiamento. 
Avrebbe dovuto osare, perchè non c’è speranza per chi ripete un passato di errori. 
Avrebbe dovuto pretendere di scegliere, sciogliere la paura, gettarsi a testa alta nel futuro. 
Avrebbe dovuto fare questo e molto altro, ma soprattutto non arrendersi a ciò che è imposto come inevitabile.
Perchè non c’è domani per chi abbassa la schiena sperando di schivare il colpo.
Buon Natale.

domenica 4 dicembre 2011

Se Roma è il sintomo, Berlino è la malattia. Unica cura l’Europa


Un governo ottuso di conservatori regge la Germania, la Francia è sotto ricatto, l’Italia vive la peggiore notte politica della sua storia repubblicana.
Gli Stati Uniti non hanno la forza di esercitare alcuna funzione egemonica sul vecchio continente. La crisi globale non poteva innestarsi su un quadro peggiore.
Appare infatti evidente che uno dei fattori che maggiormente incide sull’incapacità di costruire nuove regole e nuovi equilibri nelle dinamiche della finanza e degli scambi mondiali, e quindi di indicare una via di uscita duratura dall’attuale fase di instabilità, sia l’assenza politica della maggiore area economica del pianeta, l’Europa.
Dall’Europa non si può prescindere, l’Europa non esiste. Non solo e molto peggio. L’Europa è oggi seriamente a rischio anche come unità economica, per incapacità, debolezza  o assenza di volontà dei suoi maggiori aderenti.
E’ opinione diffusa che l’epicentro del problema sia l’Italia, con il suo impronunciabile debito pubblico e, fino a ieri, la sfacciata inconsistenza della sua leadership politica.
Non è così.
L’epicentro del problema è ed è sempre stato la Germania e la totale assenza di visione del gruppo dirigente conservatore al potere.
L’Italia è debole , presta il fianco alla pressione finanziaria di chi scommette sulla fine dell’Euro, è stata trascinata in un limbo periferico, ma continua ad essere troppo grande per fallire in solitudine. Ma è la Germania, in una UE dalla governance bloccata, ad avere la responsabilità delle scelte sul futuro, e in questo momento è prigioniera di un’ideologia che mischia nazionalismo passivo e liberismo.
Non si può infatti definire in altro modo l’atteggiamento di chi, pur sapendo che nessun paese può reggere nemmeno a breve termine la crescita esponenziale dei tassi di interesse, in assenza di interventi massicci della propria banca centrale, insiste nel mantenere la BCE incollata al proprio ruolo di bastione del rigore e del monetarismo.
Lasciando balenare l’idea che forse la stretta si potrebbe un po’ allentare, ma solo a patto di sacrifici umani, di misure che, pur se recessive, indichino la disponibilità alla contrizione morale.
Il momento è eccezionale, ma viene affrontato da Berlino come se il liberismo non avesse già dimostrato la propria fatale vocazione alla crisi e la propria assoluta incapacità di governarla, e come se i paesi del Mediterraneo altro non fossero che uno dei tanti Sud del mondo, cui far ingoiare il veleno dei piani di ristrutturazione.
C’è un cupio dissolvi in questo approccio da parte di un paese che ha avuto e ha nell’Unione Europea il proprio primo mercato commerciale e finanziario, nonché un’indiscussa funzione di guida potenziale.
Il crollo dell’Eurozona sarebbe certo fatale per Italia, Spagna, Grecia, Portogallo e Francia, ma non lascerebbe la Germania sovrana sulle macerie di un continente. Ne sarebbe piuttosto sepolta, chiusa nelle proprie anguste dimensioni di piccola potenza nazionale in un mondo che richiede ben altre dimensioni.
La destra europea sta distruggendo le radici sociali e culturali dell’integrazione continentale. E’ un gioco molto pericoloso e intrinsecamente populista, anche quando veste i panni modesti di Angela Merkel o dei suoi commissari mediterranei. Perché nasconde i problemi, fingendo che esistano soluzioni nazionali a problemi che sono iscritti nello statuto della BCE, nell’assenza di politica europea, nei parametri di Maastricht, nell’ossessione per la deflazione, che prescinde da ogni considerazione di politica economica.
Non c’è soluzione della crisi, se non si saprà uscire rapidamente e con forza dai confini degli stati nazionali e dei residui ideologici del neo-liberismo.
La destra è impossibilitata a farlo.
La sinistra saprà costruire rapidamente un proprio profilo non solo europeista, ma europeo, che sappia indicare la via degli Stati Uniti d’Europa e di un ritorno a Keynes, inteso come primato dell’occupazione, della redistribuzione e del governo pubblico dell’economia?
La sentenza non spetta ai posteri, ma a noi.

martedì 29 novembre 2011

17 anni sono lunghi a morire


Dal 1994 l’Italia ha vissuto con una prospettiva straniante, dove il focus era perennemente centrato su Silvio Berlusconi.
Non ci era possibile cercare altri punti di vista, soffermarci sui grandi rivolgimenti globali, praticare e apprezzare il cambiamento, perché tutto iniziava, finiva e ritornava in una sequenza ripetuta all’infinito di gesti, parole, messaggi identici.
Si poteva essere berlusconiani quindi di centrodestra, antiberlusconiani quindi di centrosinistra, con la flebile variante finale dei nonberlusconiani di centrodestra.
Sempre, comunque tutti segnati dal riferimento al Cavaliere.
Quando lo schema ha iniziato a funzionare la Cina era un paese del terzo mondo e internet una parola per addetti ai lavori, l’Euro un ipotesi e i cellulari un oggetto di lusso.
A molti italiani Berlusconi non è mai piaciuto, ad altri a fasi alterne, altri non lo abbandoneranno mai.
Certo è che non ce ne siamo mai stancati, se è vero che la partecipazione al voto degli italiani è sempre stata elevata, e che ogni volta che si sono affacciati elettori stanchi del bipolarismo questi sono sempre usciti dai ranghi del centrosinistra. Ci fu un tale che una volta provò a dire che non si doveva parlare di Berlusconi, salvo chiedere voti utili a sconfiggere l’innominato. Il risultato del suo sforzo fu una vittoria senza precedenti per il principale esponente del campo avverso. Berlusconi appunto.
Ora si è messo in un angolo, e noi vaghiamo come marinai notturni privati improvvisamente della stella polare.
Guardiamo un pugno di uomini e donne scesi da Marte a governarci e sembrano piacerci. Piuttosto anziani, eleganti, sobri, dicono cose normali e minacciano misure impressionanti. Di molti di loro non si conosceva il nome, non si erano mai visti in TV, qualcuno ha un’ombra oscura. All’estero li conoscono, si fidano, grazie a loro ci parlano di nuovo. Il Presidente della Repubblica li ha scelti, il Parlamento li ha adottati. Non li avrebbe mai votati nessuno, ma sembrano il governo che avremmo sempre desiderato. Secondo il numero due di quella che fu l’opposizione sono la prova che i sogni possono avverarsi. Per qualcuno di quelli che ci governava sono la morte della politica, per altri con un comune passato scudocrociato sono la politica finalmente rinata, l’apogeo della democrazia. Un illustre antiberlusconiano ha sostenuto che in fondo la tecnocrazia non sarebbe una tragedia, ma anzi, forse, il compimento della Costituzione. Piacciono persino a Grillo e ai nemici della Casta, come si addice a professori e banchieri.
Io mi guardo attorno, e piacciono a sinistra. Voglio proprio dire a sinistra, quella vera, quella che il PD è troppo moderato, che Vendola non poi il massimo, che bisognerebbe fare la rivoluzione, che Berlusconi dovrebbe marcire in galera. E ho il sospetto che poi, in fondo, tutto si riassuma in quell’invocazione delle manette, e che quella sia l’eredità più velenosa del berlusconismo.
Averci lasciati disarmati e in attesa plaudente e un po’ ansiosa davanti ad un governo che incarna tutto ciò a cui ogni sinistra europea si oppone, con l’idea che l’azione di Monti sarà il prosieguo naturale della festa di piazza del Quirinale.
No, mi spiace, ma non è il nostro governo, come il governo Badoglio non fu il governo della Liberazione.
E prima ci renderemo conto che una destra perbene è in questo momento altrettanto dannosa di una destra cialtrona e populista meglio sarà per tutti.
Soprattutto per l’Europa e l’Italia.

sabato 19 novembre 2011

A margine del governo Monti


Di cosa sia il governo Monti si è scritto molto in settimana, interpretando ciascuno i suoi desideri, più che la realtà di un parlamento diviso fra riottosi ed entusiasti, oltre la collocazione ufficiale dei partiti.
Si tratterà di capire nei prossimi mesi quale dei due gruppi prevarrà, anche per comprendere in che direzione verrà instradato il binario della Terza Repubblica.
In che direzione vorrebbero vederlo gli elettori è già chiaro, quello di un rinnovato bipolarismo, che non escluda le forze politiche organizzate, ma che abbia al centro il rapporto fra territorio e rappresentanza.
Questo ci dice il milione abbondante di firme raccolte sul referendum elettorale, che rappresenterà il vero convitato di pietra al tavolo del governo.
A proposito di rappresentanza, mi ha molto colpito in negativo la scelta di Bersani di caratterizzare il ruolo del suo partito sul fronte della riduzione del numero dei parlamentari.
Non comprendo infatti la necessità di concentrarsi su un tema di demagogia spicciola, che qualora dovesse peraltro essere presa sul serio si tradurrebbe immediatamente in una sottrazione di democrazia, quando dal PD ci si aspetta in questo quadro tutt’altro, soprattutto di essere garante della sostenibilità sociale dell’esperimento Monti.
Questo sarebbe invece il momento di riconoscere che, se possiamo tirare comunque un sospiro di sollievo per la cancellazione del governo del baratro, questo è dovuto anche alla tenuta delle clausole di salvaguardia iscritte nella Costituzione, fra cui la designazione parlamentare dell’esecutivo, il bicameralismo perfetto, l’elevato numero dei parlamentari e il ruolo di garanzia della presidenza della Repubblica. 
Il complesso di questi elementi ha resistito persino alle nefandezze del porcellum e della compravendita d’aula, portando infine alla sostituzione di Berlusconi.
Tralasciando l’elezione diretta del premier, in che situazione saremmo stati con una sola camera di 315 parlamentari, di cui 189 di maggioranza e 126 di opposizione, tutti nominati dalle segreterie di partito?
Ma ci vorrebbe un’altra legge elettorale si dirà, e una diversa e migliore classe politica. 
Certo, ma potremmo sceglierne anche di peggiori, ed è per questo che i costituenti hanno voluto camere ampie e dai poteri analoghi. Se si disperde il potere, aumenta comunque il controllo.
Anche a questo si dovrebbe pensare, quando si vuole strizzare l’occhio alle forme peggiori di antipolitica, e soprattutto quando si guarda al proprio interesse immediato e alla tentazione di risolvere difficoltà politiche con il taglio ulteriore dell’accesso alla rappresentanza e quindi al ruolo parlamentare.
Da questo punto di vista si potrebbe peraltro chiedere a Veltroni quanto abbia giovato a lui e al paese la riuscita estromissione da questo parlamento di tante culture della sinistra.
A Bersani consiglierei quindi di lasciar perdere improbabili ritocchi alla Costituzione, e di concentrarsi piuttosto, se di parlamentari vuole occuparsi, dei loro grandi e piccoli privilegi.
Suggerirei di eliminare lo scandalo dei portaborse, retribuiti in nero da onorevoli che si trasformano in caporali. Di eliminare la diaria, e di sostituirla con un ostello Montecitorio per i fuori sede e buoni pasto da 9 euro, come per i pubblici dipendenti.
Di cancellare vitalizi e assicurazioni sanitarie di cui non si comprende il motivo, vista l’eccellenza della previdenza e sanità pubblica.
E avanti così, su una strada che sono certo altri conoscono meglio di me.
Ma si lasci stare la Costituzione, scritta da donne e uomini per cui era ancora possibile guardare alla rappresentanza parlamentare come pietra angolare della democrazia, e non come merce di scambio del potere. Io ripartirei da li.

PS: ho letto che fra 5 anni nella Provincia di Ravenna il numero dei consiglieri scenderà a 12. Al di là del dibattito sulle province, il mio condominio ha una rappresentanza più numerosa, e nessuno si sogna di toccarla. Uno per scala è considerato un limite invalicabile…

domenica 13 novembre 2011

E’ tornata Tina. E non è una buona notizia.

There Is No Alternative. Così Margaret Tatcher era solita troncare ogni discussione sulle scelte del suo governo, ammantandole del segno dell’ineluttabilità. Non c’è alternativa rischia di diventare la parola d’ordine della fase che si apre in Italia, dove la politica, offesa dal ventennio berlusconiano, è tentata ancora una volta dalla fuga. Ad aprire la strada all’inevitabile è la caduta di Berlusconi, su cui è bene spendere alcune parole di chiarezza. Il regime non crolla sotto i colpi della mobilitazione di piazza, sconfitto sul terreno dell’opposizione alla “macelleria sociale”, ma pugnalato da Pierferdinando Casini, la cui mano è armata dai mercati finanziari, che a Berlusconi con ragione non perdonano l’inerzia. Il governo cade in un punto che oscilla fra centro e destra, e Monti ne è quindi la naturale conseguenza. Per la sinistra è una sconfitta, pesante, che forse ancora non cogliamo fino in fondo, perché non si può chiamare in altro modo una fase che costringe il PD a sostenere in posizione subalterna un governo che nasce circondato dai commissari del FMI. Il PD potrebbe rifiutarsi, potrebbe invocare il voto e immediatamente ottenerlo. Non può farlo, ed è qui che TINA entra in scena al culmine del dramma. Al governo Monti, realmente, non c’è alternativa, perché lo spread a 575, i tassi sui BTP al 7,25% non sono un’invenzione, ma il punto prima del baratro, quello a cui in settembre si guardava con un’alzata di spalle per sostenere che il problema del debito era solo teorico. Chi faccia finta di non comprendere questo non è un difensore della povera gente, ma un cinico piazzista di voti, o un rivoluzionario da salotto, perché dimentica di dire che l’alternativa a Monti non sarebbe stato il voto domattina, ma essere accompagnati alle urne da due mesi di governo Berlusconi e di tempesta finanziaria. E soprattutto omette la più grande, tragica, imperdonabile colpa del regime di Arcore, quella di aver negato per anni la crisi e di averci trascinati lontano dal cuore politico dell’Europa, pericolosamente vicini alle periferie del mondo, dove la finanza detta legge e ordine, dove, non da oggi, non c’è appunto alternativa, dove la democrazia è comunque un guscio vuoto. E’ da quel punto che oggi dobbiamo toglierci al più presto, così come dobbiamo presto tornare alle urne. I due punti non sono in contraddizione. Dobbiamo recuperare subito credibilità, perché è la precondizione per recuperare la sovranità, attualmente di fatto in mano ai mercati, e poi rapidamente esercitarla, per non assumerne la perdita come naturale. La sinistra deve reggere Monti, perché altrimenti si sosterrebbe soltanto sull’aria rarefatta e irresponsabile della destra europea, per realizzare un programma di tre punti. Patrimoniale pesante, per liberare la finanza pubblica dall’oracolo dei mercati e la politica dall’alibi della speculazione. Riforma della legge elettorale, rispettando lo spirito del referendum in attesa, per restituire ai cittadini la possibilità di scegliere serenamente il proprio futuro. Cancellazione dei privilegi della politica, facendo bene attenzione a non scadere nella demagogia, e da qui nella riduzione di democrazia. La sinistra deve reggere Monti, e intanto chiarire immediatamente che il suo futuro prossimo non è Monti, ma una coalizione fondata sul Nuovo Ulivo e le primarie, per realizzare quel programma che nessun governo tecnico, di larghe intese o del Presidente potrà mai realizzare. Ricostruire il paese, per cambiarlo dalle fondamenta

domenica 6 novembre 2011

Se il problema è Matteo Renzi

La settimana si è aperta con le immagini terribili delle 5 terre sommerse dal fango, con l’incursione potente nel campo del centrosinistra di un narrazione di destra, con il governo impegnato in genuflessioni impotenti davanti alla BCE.
Si chiude con l’alluvione di Genova, le prospettive sempre più prossime di un governo di malanno pubblico, gli ispettori-commissari del FMI sguinzagliati per l’Italia.
In mezzo, il piccolo evento santoriano, che ha definitivamente seppellito l’idea del duopolio televisivo, con una trasmissione di rara inutilità.
Sullo sfondo la trama dello spread e del suo andamento, un cardiogramma da infarto in contrappunto ad una politica economica dall’encefalogramma piatto.
In questo quadro è indubbio che l’attenzione della sinistra italiana si sia focalizzata soprattutto su Matteo Renzi, e questo è un problema.
Innanzitutto perché non lo merita, tanto sono carenti di originalità i contenuti della sua proposta politica, già ben rappresentata all’interno del centrosinistra dal vicesegretario del PD.
In secondo luogo perché dimostra quanto sia facile dettare l’agenda al nostro campo, se è vero che basta inventarsi un personaggio in un fine settimana di ottobre per indirizzarci immediatamente all’inseguimento.
Tutti dietro al pallone, come in un campetto di periferia.
Stavolta, peraltro, il pallone nemmeno abbiamo capito dove fosse.
Non parlate di rottamazione, ci hanno detto, guardate alle idee.
E tutti a discutere delle idee, di quanto fossero anni ’80, di destra, quasi berlusconiane, addirittura uscite dal computer che custodisce i segreti del Grande Fratello.
Invece il problema è proprio la rottamazione, orrendo termine per suggerire il totale, drastico ricambio della classe politica, ovvero un’esigenza sentita come reale, forse prioritaria da una parte enorme dell’elettorato.
Se lascerà che questo tema abbia diritto aperto di cittadinanza e diventi manifesto politico soltanto di Renzi, la sinistra correrà un grosso rischio, perché permetterà ad idee del tutto minoritarie di prendere l’ascensore della voglia di cambiamento ridotta alla sua forma più grezza, quella del rinnovamento delle facce.
Che peraltro non è un trucco, ma un tema reale, perché non si è credibili nell’affermare come un mantra che è cambiato un mondo, lasciando che ad interpretarlo siano ancora i volti dei mondi passati.
Si vuole riconsegnare Renzi al vecchiume delle sue idee? Bene, allora si assuma e si pratichi da subito un impegno per il rinnovamento reale e in profondità della classe politica.
Altrimenti avremo, temo, delle brutte, quanto evitabili, sorprese.

sabato 29 ottobre 2011

Frane

Non si dovrebbe mai guardare il mondo lasciandosi trasportare dalla suggestione dell’unità del tutto, che lega in un unico universo mistico fatti, sensazioni, uomo e natura.
Eppure è difficile resistere alla tentazione, quando tutto intorno a te smotta e frana, e l’immagine devastante del fango che trascina e sommerge angoli di pura bellezza diventa il segno profondo del paese.
Non i cambiamenti, ma l’assenza di cura, di memoria e di ansia serena di futuro hanno prodotto uno squarcio nelle 5 Terre liguri e nelle mille italiane che ogni giorno corrono lo stesso rischio.
Che non è diverso da quello delle lavoratrici e dei lavoratori italiani, che da ieri si vogliono abbandonati all’onda di piena della crisi globale, liberi di essere licenziati e trascinati a valle.
Né è diverso da quello dei milioni di precari, che come la terra privata di radici a valle sono già arrivati, intorbidendo le acque e facendole pesanti.
Ti accorgi del fiume quando rompe l’argine, se hai smesso di pensarti in sintonia con lui.
Se hai permesso che la scuola, i servizi sociali, la sanità, gli alberi pesanti che affondano nella terra e la trattengono venissero progressivamente ridotti a cespugli, e passivamente hai abbandonato la Politica, che prima di ogni altra cosa è cura della relazione, è radice reticolare che compatta e vive nella comunità e le permette di essere porosa, di assorbire la pioggia, anche quando batte con violenza.
Così guardi la democrazia, e se ti sembra solida nei suoi riti, aggrappata a 316, famigerati voti, non ti accorgi che è la zolla su cui poggia a scricchiolare, pronta a scivolare con fragore.
Avere cura, si diceva, per non maledire il cielo mentre si umilia la terra. E’ nostra la responsabilità di rafforzare gli argini, pulire i fiumi, ripristinare equilibri e restituire forza a chi ne è stato privato. Poi il cielo farà la sua parte.

martedì 25 ottobre 2011

Un Governo, meglio prima che poi

Scriveva domenica Eugenio Scalfari che Vendola e Casini dovrebbero accettare la scommessa di una legislatura che sia insieme di decantazione e costituente, che permetta di smaltire le tossine del berlusconismo e quindi di disegnare un nuovo bipolarismo, per poi sfidarsi successivamente nelle urne.
Scriveva questo invocando il ricordo di Moro e dell’unità nazionale, affidando alle parole dello statista democristiano il richiamo ad un’etica superiore della politica, che sabbia andare oltre le divisioni quando sia in gioco la salute della democrazia.
Tutto molto bello, e sintomatico di un’Italia incapace di ammettere l’esistenza del berlusconismo se non in termini di ordine pubblico e in perenne ricerca di ispirazione nel passato.
Si finge così perennemente di ignorare che Berlusconi esiste e gode tuttora di una dote di consenso sufficiente a mantenerlo nel ruolo di protagonista della destra italiana, seppure probabilmente al prezzo di condizionarne le possibilità di successo elettorale.
In Italia non esiste una destra normale cancellata dall’anomalia berlusconiana.
Esiste una destra incredibile nel suo florilegio di leghismi, nazionalismi d’accatto, soggiacenze clericali, vezzi anti-religiosi, opportunismi, nostalgie, impastati e tenuti insieme da dosi micidiali di cinismo, compiacenze e complicità. 
Di questa destra Berlusconi è stato insieme forgia e interprete, le ha dato mezzi e missione, se ne è fatto non leader ma sovrano, e come tale lascerà un regno alla sua morte.
L’idea che la sconfitta di Berlusconi ne determinerà l’uscita di scena e consentirà ad un nuovo raggruppamento moderato e presentabile di raccoglierne senza fatica l’eredità elettorale appare pertanto lunare, con buona pace di Casini, la cui unica, reale chance di sopravvivenza politica appare legata al mantenimento dell’attuale legge elettorale, o meglio ad una sua riforma in senso ulteriormente proporzionale. 
Lo sa bene la Chiesa cattolica, che pur sfibrata moralmente dal berlusconismo, non ritiene praticabile nel quadro dato alcun
 significativo investimento su un’alternativa, che viene preparata e congelata per tempi migliori.
Né tiene il paragone forzato con la stagione del compromesso storico. Vendola e Casini sono leader di due formazioni di media grandezza dal profilo fortemente connotato, e non di due partiti di massa presenti in ogni ambito della società. 
Possono orientare e ambire a guidare una coalizione, ma non pensare con la loro sola presenza di rappresentare l’intero corpo sociale del paese. 
Ma soprattutto il coma irreversibile della seconda Repubblica non ha nulla a che vedere con le convulsioni che sul finire egli anni ’70 già scuotevano implacabili la prima, né la crisi economica attuale può essere paragonata a quella generata nello shock petrolifero. 
Sono diverse le prospettive e le dinamiche sociali. 
Sotto molti aspetti lo stato odierno delle cose è il conto che paghiamo alle scelte di allora, prima fra tutte quelle di combattere con il neo-liberismo l’esaurimento del dinamismo keynesiano.
Ecco quindi che non ci libereremo del berlusconismo affidando alla sinistra il ruolo di levatrice di una inconsistente destra moderna e liberale. 
Ce ne libereremo se la sinistra saprà con forza proporre e praticare la strada vera di un’alternativa, lasciando che la destra consumi nel conflitto politico le proprie contraddizioni, salvando il bipolarismo e con esso la possibilità di un confronto aperto sul futuro con il popolo italiano.
Di questo, e solo di questo, abbiamo bisogno, perché la seconda Repubblica è morta senza mai essersi liberata dell’ingombro della prima, e la danza macabra si consuma sulla scena di una crisi economica aperta ad ogni esito. Decisamente non è una costituente che ci serve, ma un Governo. 
In nome del popolo sovrano. 

domenica 16 ottobre 2011

Due scogli neri in un fiume in piena

Venerdì l’immagine oscena degli applausi e abbracci in Parlamento a celebrare la sopravvivenza di un governo in stato vegetativo. 
La vita per la vita, nell’ossessionata riproduzione dell’adagio andreottiano che celebra la sovrana indifferenza dell’istituzione per tutto ciò che accade all’esterno delle proprie liturgie, dimentica dell’essere la sovranità altrove, e quindi implicitamente sovversiva, nella pervicace volontà di separare forma e sostanza della democrazia. 
Le risate di chi celebra nel trionfo di una fiducia sul nulla la propria conferma nel luogo di un potere impotente altro non sono che lo sberleffo in faccia al popolo sovrano.
Ieri le fiamme nel cielo di Roma, il suono sordo della guerriglia ritmato da bombette e lacrimogeni, gli assalti e le cariche, sanpietrini e manganelli, l’intera coreografia di un altro rito, quello dell’Attacco al Potere, che è sempre in questo paese miserabile scontro con le forze di polizia, due passanti, quattro vetrine, dodici auto. 
E, senza averli letti, editoriali sui cattivi maestri della sinistra, sull’incapacità del ministro dell’interno, su presunti infiltrati, sulle corresponsabilità di chi ha taciuto, le richieste di condanna incondizionata, le professioni di non violenza, chi sono i black block, la distanza dal movimento. Il dibattito sul servizio d’ordine.
Ieri milioni di persone nelle piazze d’Occidente, che hanno dato corpo a un sentimento collettivo che potrà cambiare la storia, se saprà farsi politica, se saprà scegliersi la parte, oltre i pelosi consigli e suggestioni di chi, accucciato ai piedi del potere, accarezza la tentazione dell’estraneità, plaude alla bellezza dell’orizzontalità che nemmeno sfiora le travi ben verticali del comando. 
C’è una richiesta che agita il mondo e si chiama democrazia, quella di chi non l’ha mai avuta e quella di chi la conserva scritta nelle proprie Costituzioni, ma se l’è vista sottrarre mentre veniva irretito da una politica ridotta a palcoscenico. 
La democrazia, che è resa incondizionata del potere alla libertà e sovranità dei popoli, ma insieme possibilità reale di cambiamento, primato vero della politica sull’economia, e non ancella impotente. 
Per qualcuno è un percorso sanguinoso di conquista, come ci insegnano le piazze del Mediterraneo, per altri un cammino di riappropriazione, che passa anche per la bandiera a stelle e strisce piantata in faccia a Wall Street. 
Per noi italiani è la capacità di riconoscerci, oltre il gas esilarante, ottundente, allucinogeno che realmente da troppi anni riempie le strade di questo paese. 
Fare aria, guardarci in faccia, leggere con calma tutta la Costituzione, riconoscere le macerie alle nostre spalle, perdere pochi minuti a chiederci come sia possibile addormentarsi con i volti di Berlinguer e Pertini e svegliarsi con quelli di Bossi e Berlusconi, e poi alzarsi. 
Indignati, ma neppure troppo. Soprattutto determinati a cambiare l’Italia e l’Europa, a riprenderci tutto quello che ci è stato rubato. 
Politica, Parlamento, Diritti, Lavoro, ridotti a surrogato ma non ancora svaniti.
E poi Sinistra, che sarà pure termine desueto, sconosciuto ai più, ma che è invece la scelta antica e la bandiera di tutto ciò per cui ci battiamo e per cui tanti si batterono per consegnarci un mondo migliore di quello di oggi. 
Ci sono tante cose di cui il movimento italiano vorrà discutere da oggi. 
A queste ne va aggiunta una, fondamentale, e sono le primarie, come scelta di campo, come strada collettiva verso il cambiamento, come via di riappropriazione immediata della politica. 
Perché, per dirla chiara, l'affermazione di Nichi Vendola nel campo largo dell'opposizione é l'unico evento da cui può passare qui ed ora, al di la di recinti e opportunismi, una scossa per l'Italia.
Per sottrarla alle mortifere fotografie dei giorni scorsi. 
O si vuole, ancora una volta, lasciarla ad altri?

giovedì 13 ottobre 2011

Una mela indigesta

Ho letto qualche tempo fa, a Steve Jobs vivente, che Barack Obama aveva ordinato di riorganizzare su base Mac l'intero sistema informativo della Casa Bianca. 
La ragione della scelta era il tentativo di collegare ad un brand di successo l'immagine di un presidente in difficoltà.
Comprensibile e molto "americano". 
Oggi una federazione importante del mio partito ha diffuso un manifesto in morte di Steve Jobs, con il taglio a mela morsicata del simbolo di SEL. Critiche di ogni tipo e da ogni direzione, con intervento riparatore finale di Nichi Vendola. 
SEL riconosce il genio creativo di Jobs, ma la sua parte è quella del software libero. 
Potremmo aggiungere che stiamo con il lavoro sfruttato e che una multinazionale non è esattamente il nostro modello organizzativo. Oppure indugiare sui lati oscuri del caro estinto. 
Tanto per stroncare in modo inappellabile l'iniziativa romana di SEL. 
Che tuttavia centra forse involontariamente un punto.  
Steve Jobs non ha inventato nulla di rivoluzionario, ma é stato un maestro nel trasformare oggetti di uso comune in crogioli emozionali, in reliquie pop. 
Sbaglierò, ma l'impressione è che i milioni di i-devices che affollano il mondo appartengano alla sfera dei frammenti della vera croce che attraversavano il medio evo.  Condensati portatili del Mistero, dove il mistero è oggi quel futuro sempre inafferrabile.  
E se il prete teneva in tasca l'amuleto, e l'ateo ben nascosta addosso una croce, i partigiani del cambiamento del XXI secolo possono pur versare una lacrima per chi ha donato loro l'Iphone. Certo, magari in privato.

PS: ho scritto questo post non perché ritenga serio il tema, ma perché é la massima serietà concessa dal mio stato influenzale.

domenica 9 ottobre 2011

Stavolta abbiamo taciuto

Chissà cosa avranno pensato della loro città i bronzi di Boldrini e Zaccagnini, voluti sentinelle delle nostre istituzioni. Cattolici e comunisti, resistenti e partigiani, cosa avranno pensato in queste settimane in cui Ravenna sembra scivolata lentamente nell'indifferenza e nella resa ai piccoli sentimenti del fastidio, del rancore, di un'epidermica intolleranza?
Nulla di grave, per carità. La rivolta vera o presunta di un quartiere contro la scelta di una chiesa di ospitare due tende per i senzatetto. L'ondata vera o presunta di paura per un numero imprecisato di profughi forse tunisini e si dice dediti a spaccio. La scelta di un grande centro commerciale di incontrare il disagio vero o presunto dei suoi clienti davanti alla richiesta di elemosina a mezzo carrello. L'ennesima ordinanza anti-degrado, che poi significa anti-alcol, che poi diventa anti-vetro, che poi diventa non-si-puó-dire-cosa, nel momento in cui chi l'ha emessa ne affida l'esecuzione al Buon Senso dei vigili, alla faccia di qualche secolo di civiltà giuridica. E poi, si dice, non vi preoccupate. Prima o dopo se ne andranno, anzi abbiamo già la data di scadenza, presunta naturalmente. Sono tutte cose già viste e sentite nei paraggi. Eppure fanno un po' impressione messe tutte insieme, fa un po' impressione l'ultimo mese di cronaca cittadina, perchè si tratta appunto di cronaca, in assenza di dibattito pubblico, di prese di posizione, di intervento politico. È tutto nebbioso ciò di cui si parla, ma ciò che alla fine risulta presunta è la cultura solidale della nostra città, che si smarrisce nel silenzio, nella fatale assunzione dei problemi e nella resa dell'indifferenza. È normale temere i senzatetto, voler fare la spesa in pace, fregarsene dei profughi e non volerli attorno. Per tutto ci sono piccole, pulite soluzioni, accomodamenti indolori. Tutto si puó spostare, rimuovere, allontanare. Senza proclami razzisti, perchè mica siamo leghisti. Con calma, per approssimazione. È così che improvvisamente, un giorno ci scopriamo vecchi, evitando per anni con cura di guardarci allo specchio, e incappando per caso nel riflesso di una pozzanghera. Stavolta abbiamo taciuto, e questa più che una colpa è un sintomo. Ma chiedo alla sinistra se non sia il caso di ricominciare a parlarci.

mercoledì 28 settembre 2011

Un nuovo Aventino

A questo punto la domanda è se cadrà prima Berlusconi o la democrazia italiana. Sbaglierò, ma ho la netta impressione che giorno dopo giorno, scandalo dopo scandalo, declassamento dopo declassamento la totale squalifica del governo scivoli sull'intero sistema politico, con il serio rischio di franare poi come una slavina sull'intero quadro istituzionale.
Non sarebbe d'altronde una novità.
Ci sono infatti due cose che un sistema non può sopportare, ovvero un eccesso di distanza simbolica fra governo e popolo e l'evidenza vera o presunta dell'incapacità di affrontare le sfide del tempo.
Che l'attuale governo sia totalmente inadatto, impreparato, lontano da qualsiasi abbozzo di risposta alla crisi economica è un elemento rapidamente entrato nel senso comune. Che il nostro contesto politico e istituzionale non riesca a sbarazzarsene, ma debba piuttosto assistere impotente alla dichiarata volontà di durata fino al 2013, che è come dire fino all'eternità, è invece il tema che dovrebbe destare più preoccupazione.
La vera forza della democrazia è infatti non solo la possibilità di eleggere il proprio governo, ma anche e soprattutto quella di rovesciarlo senza traumi quando questo si riveli non più in sintonia con la realtà.
Se questo secondo elemento salta, la democrazia si squalifica con eccezionale rapidità.
Il fatto che il parlamento si occupi a giorni alterni di imporre disordinati sacrifici al paese e di giudicare secondo opportunità politica se autorizzare o meno la carcerazione di un suo membro non puó d'altronde che produrre un'accelerazione di una crisi di legittimità in cerca di sbocchi.
Con il rischio appunto che lo schifo per Berlusconi tracimi al disgusto per un sistema compresso in ritualità che ne impongono la permanenza.
Per paradossale che sia, siamo prigionieri del parlamentarismo, ovvero di un sistema costituzionale che vede nella mobilità e intelligenza politica delle due, non a caso, camere l'unico vero antidoto a situazioni come quella che stiamo vivendo, in assenza di qualsiasi pluralità dei livelli decisionali.
E quindi è il parlamento a caricarsi del peso insostenibile della propria impotenza.
Non è chiaro se a rappresentare meglio la maschera della politica sia il ghigno stanco e innaturale di Berlusconi o la smorfia tesa e in perenne ribasso di Bersani.
Bersani, che giorno dopo giorno si presenta afflitto al paese per informarlo che il governo sta trascinando a fondo l'Italia, ma che lui nulla può fare per impedirlo, senza comprendere che in questo modo passerà senza alcuna colpa dallo stato di vittima a quello di complice.
E allora io credo che oggi il centrosinistra abbia due urgenze.
La prima è nascere, al di là delle foto ricordo in stile Vasto, la seconda è farlo nelle piazze e strade di questo paese.
Abbandonare la lotta parlamentare per salvare il parlamento, poiché è evidente che tattiche e borbotti di palazzo non abbattono il sovrano, ma gli oppositori e con loro le istituzioni.
Un nuovo Aventino, che trasmetta l'idea di non voler più contribuire a mascherare con la propria presenza l'indecenza di un potere abusivo.
E insieme la nascita di una coalizione che con le primarie offra moralmente al paese il proprio governo, in attesa di insediarlo con le elezioni.
D'altra parte, un governo ombra già l'abbiamo e occupa Palazzo Chigi.

giovedì 15 settembre 2011

Lari e Penati

Immaginate un partito nato in un teatro sbrecciato per fare la Rivoluzione, che la Rivoluzione divenne anziché farla, per finire schiacciato dal peso lontano di chi quella Rivoluzione aveva fatto.
Quanto idealismo ci volle per tentare e quanto cinismo per resistere? Prevalse il cinismo progressivamente e non possiamo stupircene.
Ce ne voleva molto dopo Yalta, e Budapest, e Praga, e Kabul. Alla fine fu l'antidoto, sospetto, che permise di resistere all'89, che di quella Rivoluzione spense definitivamente anche il ricordo di ogni idealità.
Ci fu negli anni che seguirono chi abbracció il pensiero unico per colpa, per stanchezza, per convinzione, per liberazione, per desiderio di sopravvivenza.
In Italia si impose per vuoto di potere e bisogno di legittimazione, nella scomparsa all'unisono di chi il potere aveva sempre avuto e della legittimazione degli altri, che in sostanza era sempre stata in quell’altrove caduto.
Dove voglio arrivare con queste righe acerbe?
A Penati naturalmente.
Chi era Penati? Era il partito al Nord. E non lo era in quanto ricco di finanziamenti, nè in virtù di un oscuro quanto ipotetico sistema Sesto. Non si era comprato il partito, né credo altri lo avessero fatto per suo tramite. Semplicemente, temo, di quel partito era uno dei figli più brillanti, per quanto ora disconosciuto in poche ore.
Piaceva, Penati, perché sapeva essere lupo fra i lupi, perché intrecciava relazioni e rapporti, perché senza dubbio ci sapeva fare, e certamente, come usa dirsi, sapeva andarsi a casa.
Nello smarrimento di una sinistra subpadana lui aveva vinto oltre cortina, e questo senza dubbio doveva significare qualcosa. Esercita sempre un certo fascino chi pianta la bandiera in terra straniera e agli ufficiali al fronte certo non si fanno troppe domande, né ci si interroga troppo sul significato delle loro sortite e vittorie. E anche quando prima o poi suona la ritirata si concede l’onore delle armi e persino la gloria dello stato maggiore, soprattutto se quello stato maggiore è già ingombro di sconfitti.
In fin dei conti la vera ragion d’essere del centrosinistra che abbiamo alle spalle è l’adozione della sconfitta come forma mentis, dell’idea fissa che la vittoria appartenga all’avversario e si possa quindi ottenere essenzialmente sotto forma di mimetismo.
Se vuoi vincere devi sembrare come loro, se non vuoi sembrare come loro devi rassegnarti ad una vita di resistenza.
Penati era stato un maestro del camuffamento e aveva vinto nel cuore del campo nemico. Un maestro, degno di diventare il numero due del partito.
Per questo io credo che il problema non sia giudiziario, né etico, ma politico, e quindi non personale, ma collettivo, e chiami necessariamente in causa l’interezza di un gruppo dirigente, interno ed esterno al PD.
Oggi guardiamo Penati e siamo costretti a chiederci quanto abbiamo potuto renderci simili a ciò che avremmo dovuto e voluto combattere. Ci sentiamo stonati, esattamente come quando ascoltammo di essere in procinto di avere una banca, come quando ci indussero a sospettare Marchionne di santità e a vedere nella lega una nostra costola un po’ bieca. Come quando Craxi aveva ragione e, sottovoce, Berlinguer torto.
Ora io di sentirmi stonato ne ho abbastanza, ne ho abbastanza di perdere e di dovermi confondere.
Ho visto il mio paese trascinato a fondo dalle ricette dei vincenti e la sinistra smarrirsi nelle strategie dei cresciuti e allevati nel trauma della sconfitta.
Per questo e non per un ridicolo giovanilismo di maniera credo si imponga un urgente bisogno di ricambio dei gruppi dirigenti, che diventa tutt’uno con la necessità di un’alternativa politica reale.
I due temi si tengono e tanto più lo fanno ora che il precipitare della crisi, la sua traduzione rapidissima dal terreno dell’economia a quello della politica, impone il coraggio e l’immaginazione di una cesura con i dogmi e i valori del passato recente.
A partire dalla cinica rassegnazione all’impotenza della politica, alla sua riduzione a timida amministrazione dell’esistente.
Qualcuno si è fatto forte della resa, ne ha goduto, ha voluto persino impartirla come lezione. Altri l’hanno voluta apprendere con avidità, come fosse il segno del tempo. Ora quel tempo è finito. Ora tocca a noi.

giovedì 8 settembre 2011

Data di scadenza : ora

Sono stato la settimana scorsa al Tilt Camp, momento di riflessione politica collettiva a 360 gradi, caratterizzato da una forte connotazione generazionale. Bell’esperienza, partecipazione importante di giovani di ogni regione italiana, contenuti forti e partecipati.
Mi resta una domanda. Esiste una specifica questione giovanile in Italia, o almeno un determinato punto di vista generazionale sui problemi e le prospettive del paese?
Ammetto che può sembrare una domanda retorica o provocatoria, in un paese caratterizzato da uno spaventoso tasso di inoccupazione giovanile, da una generale assenza di prospettive di medio periodo, da condizioni proibitive di accesso a beni primari come la casa, da un’età media molto avanzata nelle posizioni di vertice in tutti i settori della vita associata.
E tuttavia, se affrontata in termini di rivendicazione degli ultimi e dei penultimi arrivati verso strutture e strumenti di potere che ne limiterebbero le potenzialità frustrandone le ambizioni, la questione mi sembra fuorviante.
Non credo infatti che i giovani in Italia siano particolarmente maltrattati, quanto piuttosto che scontino evidenze e contraddizioni di una struttura sociale profondamente mutata nel trentennio per scarto progressivo.
L’Italia viene da un lungo ciclo di riforme e interventi che hanno progressivamente favorito la rendita a scapito della base produttiva, alimentato la crescita delle disuguaglianze, determinato l’uscita o il mancato ingresso nei settori avanzati dell’economia industriale e quindi impoverito la base materiale del paese.
Lo ha fatto tuttavia non attraverso scelte traumatiche come quelle che in un decennio rivoluzionarono la geografia umana della Gran Bretagna, ma portando a scadenza le proprie cambiali sociali, salvo rinegoziare drasticamente le condizioni dei contratti futuri.
Ne ha ricevuto in cambio una relativa pace sociale, mentre tutto intorno si preparava un campo minato.
Oggi le giovani generazioni vivono la realtà del paese, mentre ciò che resta dei nati prima degli anni ’70 continua a scontarne una rappresentazione irreale, l’ultimo atto artefatto dell’Italia del boom economico e delle conquiste sociali prima della calata finale del sipario.
La crisi immette certo nel sistema alcune variabili impazzite, accelerando i tempi di irruzione della realtà, ma resta a ben vedere una crisi a due facce, con conseguenze diverse sui diversi attori sociali. Moltissima cassa integrazione per chi disponga di un contratto a tempo indeterminato, espulsione dal ciclo economico per i precari, danni ingenti per le imprese produttive, poche crepe nel sistema della rendita, soprattutto immobiliare.
Permane dunque una differenza fra chi possa godere del vecchio stato sociale e chi ne sia escluso, fra chi appartenga alla vecchia economia produttiva e chi goda i benefici dell’ultima economia predatoria.
Ciò che non dovrebbe tuttavia accadere è di confondere la coabitazione di due Italie con la loro compresenza, cadendo nello stereotipo di ipotetici conflitti fra giovani e meno giovani, garantiti e non garantiti.
L’Italia delle garanzie è infatti ad esaurimento, e la crisi non fa che accelerarne la data di scadenza. Il presente e il futuro sono l’altra Italia, quella del precariato come anticamera dell’impoverimento di massa, dei privilegi difesi con tenacia come unica ancora di sopravvivenza per categorie al tramonto, della fine rapida e dolorosissima del ceto medio, dei patrimoni erti a bastione di immobilismo sociale.
Parlare quindi di questione generazionale, dilatandone peraltro ormai oltre misura i limiti anagrafici, a me sembra fuorviante, quando in campo c’è invece una rinnovata e urgente questione sociale, di cui i nati negli ’80-’90 portano per intero il peso sulle spalle.
Perché è un curioso destino quello di essere avanguardie di futuro, quando quello che è stato disegnato per noi reca tutti i segni dello scadimento.
Come affacciarsi al mondo, vedere un volto inatteso e orrendo, e sentirci dire che quello è lo specchio del mondo che verrà.
Finisce che non si hanno colpe né responsabilità, ma tocca muoversi per cambiarlo il presente, prima che ci afferri e si confermi.
Il mezzo, piaccia o meno, è la politica, dove, sia detto per inciso, un problema generazionale esiste, nei livelli di responsabilità delle giovani generazioni, ma anche nella loro capacità di esigere per se stesse quei livelli, fino ad ottenerli.
Per quanto possa sembrare incredibile, la politica vive una tale debolezza da essere uno dei pochi campi realmente contendibili nella mappa della società italiana.
E’ una debolezza fatta tra l’altro di conformismo, obbedienza, opportunismo. Può sembrare la riproduzione fedele del lato più oscuro del paese, eppure, come dimostrano le migliori esperienze degli ultimi anni, può essere con facilità mutata di segno, se agitata dal virus del cambiamento.
Spetta ai giovani, alle donne, alle intelligenze e ai corpi offesi, ma spetta farlo ora, quando il treno della democrazia suona l’ultima campana.

lunedì 29 agosto 2011

Tempi lunghi e risposte urgenti

È molto difficile comprendere quanto nel tempo odierno serva alla politica lo sguardo lungo, l'analisi complessa, la costruzione di ipotesi che vogliano insieme porre su basi stabili la comprensione dello stato presente e tracciare strategie di durata per la sua trasformazione.
Lo dico non per amore dell'attimo fuggente, ma per il suo essere substrato dell'attuale dimensione culturale di massa, e quindi oggettivamente teso a divenire condizione fondamentale di formulazione di un discorso comprensibile e quindi politicamente efficace. L'urgenza diventa la risposta immediata all'emergenza del momento, in un quadro complessivo che non si vuole né si può mettere a fuoco né tantomeno padroneggiare. Ogni fenomeno è letto nella fase in cui è in essere nella propria singolarità, salvo improbabili e soprattutto inutili tentativi di ricomposizione a posteriori, tali per cui tutto era ovvio, lineare e prevedibile.
L'arte dei commentatori calcistici elevata a scienza politica, sociale ed economica.
Ora si sta affermando come senso comune l'idea che la crisi in atto sia nata come crisi finanziaria, per divenire poi crisi economica, ed essere oggi crisi dei bilanci degli Stati.
Qui ci fermiamo, perché i pochi temerari che si orientino nel terreno delle previsioni e della memoria storica cominciano a sussurrare il tema della crisi militare.
Io credo che tale impostazione sia completamente sbagliata e che entrare oggi nel dibattito assumendola come corretta, anche solo sul piano della scansione temporale, possa essere solo foriero di correità in drammi futuri.
La crisi è ed è stata una crisi economica strutturale di lunga durata, la cui soluzione può essere trovata solo riconoscendola ed affrontandola come tale.
Essa trova le sue radici nell'esaurimento della spinta propulsiva del modello keynesiano in occidente, avvenuta sul finire degli anni '70, e i suoi antidoti temporanei nell'esplosione della massa debitoria pubblica e privata, nella privatizzazione dei monopoli naturali, nella creazione di un unico mercato globale asimmetrico del lavoro e dei capitali, nello sviluppo di bolle speculative, nella rivoluzione informatica.
In altre parole, in ciò che abbiamo chiamato neo-liberismo, che altro non è stato che la forma naturale propria del capitalismo nel trentennio trascorso.
Il problema era ed è la possibilità per il sistema di garantire tassi adeguati e crescenti di remunerazione del capitale, ovvero la condizione sottostante la capacità del mercato di mantenersi in un equilibrio sostenibile.
Condizione impossibile secondo Marx, che infatti vedeva proprio nella caduta tendenziale del tasso di profitto e nella contraddizione insanabile fra forze e organizzazione della produzione gli elementi che avrebbero condotto inevitabilmente al superamento del capitalismo.
Condizione difficile secondo Keynes, che tuttavia individuava nella correzione politica dei limiti intrinsechi nel modello economico la possibilità di un suo mantenimento o evoluzione.
Condizione certa, secondo ogni liberista, a patto che ogni aspetto dell'esistente possa essere valorizzabile senza vincoli esterni al mercato.
Così hanno fatto, dimenticando solo la libera circolazione del fattore umano, inchiodato nuovamente alla terra come ai tempi del servaggio.
Chi aveva ragione? Tutti a ben vedere, ciascuno secondo la propria prospettiva.
Ma si sono imposti i conservatori e per sopravvivere hanno fatto la rivoluzione.
Hanno dato al mondo una sola regola e moneta, dopo aver estinto il fantasma del comunismo, hanno fatto del capitale puro, assoluto spirito, nella competizione hanno messo a valore ogni singola vita, anche quelle perdute, hanno sottratto il respiro al futuro per dare fiato al presente.
Lo hanno fatto senza opposizione, se non quella di sua maestà, esibendo sempre il feretro di Lenin a prova dell'unicità indiscussa del pensiero.
Così ci hanno trascinati per trent'anni ed ora che apparentemente la cena è finita ci chiedono di pagare il conto.
Così, dopo che il debito è stato tradotto in profitto e quello privato debitamente convertito in pubblico, si afferma che l'unico punto in agenda per la politica debba essere proprio la riduzione di quel debito.
Poi, sia detto per inciso, arriverà il momento in cui la liquidità iniettata a profusione dovrà essere asciugata dall'inflazione.

Ma restiamo all'oggi. Che relativamente agli Stati esista un tema di sostenibilità del debito è un assioma inverificabile.
Per un privato un debito diventa infatti insostenibile quando le entrate non siano più sufficienti a finanziare il servizio del debito e la propria sopravvivenza, in assenza di soggetti disposti a concedere ulteriore credito.
Per uno Stato vale lo stesso principio, con la differenza sostanziale che questo ha attraverso l'imposizione fiscale maggior controllo sul livello delle proprie entrate e per il tramite della propria forza istituzionale minori difficoltà a reperire sempre nuovi, ulteriori finanziamenti.
Chi osservi per esempio l'Africa si renderà immediatamente conto che il debito degli stati continentali altro non sia da tempo che una mera misura contabile del loro stato di soggiacenza politica.
Per uno stato il tema della sostenibilità del debito non ha dunque a che fare con la sua sostenibilità in sé, ma con la qualità della spesa e con la struttura del regime fiscale, ovvero con la capacità di tradurre le risorse acquisite in fattore propulsivo e non recessivo dell'economia e di immettere elementi di coesione e non di rancore sociale.
Sotto questo profilo dovrebbe essere fuori discussione che, indipendentemente dalla sua entità, il debito pubblico italiano sia insostenibile e che la manovra in discussione non faccia altro che acuirne ulteriormente tale carattere, anche se dovesse riuscire nell'intento di ridurre lo stock e quindi i costi del servizio.
Lo stesso dicasi tuttavia per la maggior parte delle proposte dell'opposizione parlamentare, incapaci di negare alla radice che il problema italiano sia connesso ai saldi del bilancio pubblico, e quindi coinvolti nel gioco micidiale dei tagli di spesa.
Anche l'opposizione sociale ed extra istituzionale dovrebbe tuttavia essere molto attenta nel porre l'accento esclusivamente sull'argomento della macelleria sociale, acuendo l'immagine distorta che vuole la sinistra attenta esclusivamente alla spesa assistenziale, indipendentemente dalle necessita della politica economica.
Proviamo a mettere in fila i problemi del nostro paese.
Una disoccupazione eccessiva, che diventa insostenibile quando la si guardi dal punto di vista delle giovani generazioni.
Una rete di servizi pubblici non omogenea sul territorio nazionale, spesso al di sotto degli standard minimi di qualità e in costante via di ridimensionamento.
Un welfare carente, sbilanciato sul lato previdenziale e quindi, alla luce delle riforme di settore, destinato al progressivo smantellamento.
Un sistema di formazione lontano tanto dalle esigenze lavorative del presente, quanto da ogni ipotesi programmatoria del futuro.
Una struttura produttiva debole, carente sul piano della ricerca, molto condizionata dalle congiunture economiche internazionali, sostanzialmente periferica sul lato dell'innovazione di prodotto e processo.
Un mercato interno sempre più asfittico, a causa del deterioramento del potere d'acquisto di un ceto medio in estinzione e dell'eccessivo peso nelle bilance famigliari di spese per l'accesso a beni non dinamici, come la casa.
Un afflusso sconsiderato dei capitali verso la rendita anziché gli investimenti produttivi.
Un fisco oppressivo per il lavoro dipendente e, entro certi limiti, per l'impresa a fronte di un'evasione endemica e socialmente determinata.
Una rete infrastrutturale carente, vetusta, spesso estranea ad ogni logica sistemica.
In sintesi, un bilancio pubblico inefficiente sul lato delle entrate e inefficace su quello delle uscite, incapace sia di assistere lo sviluppo delle forze sociali ed economiche, sia di garantire il necessario riequilibrio della diseguaglianza.
Se questi sono i presupposti, e apparentemente non solo lo sono, ma appaiono persino condivisi, come può diventare centrale nel dibattito politico la contrazione della spesa pubblica, anziché la sua riqualificazione e persino espansione? Chi può seriamente pensare che il vincolo del pareggio di bilancio, l'aumento tout court della pressione fiscale sui soliti noti, l'allungamento del tempo di lavoro, il taglio dei costi della pubblica amministrazione, ovvero la riduzione di organici e retribuzioni, l'ulteriore compressione della capacità di spese di regioni e enti locali, possano seriamente contribuire a risolvere uno soltanto dei problemi accennati?
Nessuno, e infatti serviranno solo a farci rimanere non graditi ospiti in un'Europa che le destre continentali non riescono a immaginare se non come mercato comune a guida franco tedesca, esattamente secondo il modello ALCA pensato dagli USA per l'America Latina, il cui superamento è stato invece la condizione dello sviluppo di quell'area del mondo.
Cosa dovrebbe fare la sinistra?
Invertire il paradigma, partendo dall'obiettivo che le è proprio e da sempre la caratterizza, ovvero la piena occupazione come leva centrale dello sviluppo economico. Aggiungendo che tale concetto nel XXI secolo può essere declinato come pieno accesso ai beni e servizi minimi di cittadinanza, in un quadro di alternanza dinamica fra tempi di lavoro, non lavoro, cura e formazione.
Il secondo punto dovrebbe essere una nuova definizione di quelli che furono i monopoli naturali, da sottrarre al mercato perché forieri esclusivamente di rendite di posizione e quindi distorsivi sul piano strettamente liberale della migliore allocazione delle risorse. Sto parlando dei beni comuni nella loro accezione più ampia, al di fuori di una logica semplicistica di beni ancestrali necessari alla vita.
Il terzo punto non può che essere la riqualificazione della macchina dello stato, con la progressiva riduzione di una burocrazia spesso ancora novecentesca, lo snellimento delle procedure e dei regolamenti amministrativi e l'ampliamento della base dei servizi offerti, in considerazione delle nuove esigenze poste da una società profondamente mutata nella propria struttura demografica. Questo non ha nulla a che fare con i costi della politica, che appaiono il più fuorviante e pretestuoso degli argomenti in campo in questo momento.
Il quarto punto dovrebbe essere un grande piano organico di spesa pubblica in investimenti, che faccia piazza pulita del pulviscolo attuale, per ragionare seriamente del futuro di un paese ormai privo di strade, scuole, ospedali, reti, ferrovie, impianti all'altezza del presente.
Infine la riforma fiscale, che si dovrebbe caratterizzare per l'aggressione ai patrimoni e per la liberazione dei redditi. Si tratta in questo caso di un indirizzo teso a liberare risorse altrimenti immobilizzate, favorendo consumi e investimenti diretti anziché mediati dalla rendita, nonché di una misura necessaria di equità immediata in un paese in cui, sul piano della posizione sociale, il reddito, dichiarato e no, incide sempre meno, sostituito dalla ricchezza storica.
Io ho in mente questo quando sento parlare di rivoluzione riformista, forse per mancanza di immaginazione.
Non riesco a pensare un futuro illuminato dalle soluzioni del mercato, né mi sento tranquillizzato dal richiamo costante alla semplice lotta all'evasione fiscale e a un recupero di moralità.
Vedo il complessivo crollo di credibilità e visione della classe politica italiana ed europea, ma non posso credere alla fine del ruolo della democrazia e delle sue istituzioni come condizione del benessere prossimo venturo.
La globalizzazione, è vero, ha spezzato le colonne d'Ercole dei confini nazionali, rompendo il giogo che legava indissolubilmente capitale, lavoro e territorio, ponendo sopra essi insieme l'imperio dello Stato.
Così operando ha fatto del capitale, unico elemento globale per sua natura e vocazione, il nuovo principio ordinatore del sistema.
Così la politica nazionale è apparsa gioco e sfoggio di potere, come gioco di potere erano le faide e le cacce degli aristocratici nel maturare dello stato nazionale.
La globalizzazione tuttavia, liberata della mistica che l'ha accompagnata, è una fase, e non una strutturazione permanente dell'economia mondiale, che oscilla e ha oscillato continuamente fra fasi di liberalizzazione degli scambi e protezionismo.
Per questo la democrazia ha il dovere di riassumere rapidamente il proprio ruolo ibrido di comando e servizio, per non essere travolta con la globalizzazione che l'ha addormentata, quando i capitali torneranno a farsi territoriali.
Forse non può essere un singolo Stato ad invertire la rotta, ma certo può esserlo lo spazio euro-mediterraneo.
E comunque da qualche luogo bisognerà pur cominciare un'impresa di riappropriazione, fuori di cui sembra esserci solo la china di un incerto ritorno al peggiore passato.
Può essere l'Italia a contagiare l'Europa, perché ha ancora la statura per farlo e nulla da perdere se fallirà.
Quale paese infatti in occidente è ricco e sottrae il futuro a più generazioni? Quale forma nelle sue università cervelli che faranno la fortuna dei centri di ricerca di tutto il resto del mondo? Quale pur vivendo al centro di opportunità e contraddizioni ha scelto per se stesso la condizione di periferia? Quale ha tanta sete di politica e democrazia da aver resistito a vent'anni di deserto berlusconiano?
Un tentativo, fosse anche uno soltanto, io credo ancora possiamo meritarcelo.

domenica 21 agosto 2011

Palla avvelenata



È passata una settimana da quando il Ravenna Calcio è stato iscritto al campionato di serie D, dopo una successione di momenti fra la farsa e il grottesco, con un presidente tuttora impegnato nell'acquisto di una squadra di Prima Divisione. Con tanto di epitaffio iniziale: dopo tre giornate, con il Ravenna in testa al campionato, lascio la squadra al sindaco. Impagabile, almeno quanto lo spettacolo offerto allo stadio da Aletti e Matteucci, con la gentile e preziosa partecipazione dei tifosi ravennati. Immagino che ora il sentimento prevalente sia quello dello scampato pericolo, o almeno del meno peggio. Quando si é in affanno, sempre meglio buttare la palla in avanti. A me rimane invece la strana sensazione dell'occasione persa, forse perché sono abituato a pensare che dal male possa sempre derivare il bene o, in termini meno moralistici, che ogni crisi porti in se il genio possibile di un'opportunità.
Cosa ci rimane? Una squadra rimaneggiata, una dirigenza a tempo, un tifo incerto. E la serie D. Quale avrebbe potuta essere l'alternativa? L'Eccellenza, la Promozione addirittura, ma con una società in cui sperimentare forme di partecipazione popolare, condizione per provare a restituire alla città uno sport perduto fra scandali, interessi, disaffezione. Non riesco francamente a comprendere quale sia l'orgoglio di una serie minore, a cui accedere dopo aver rischiato la radiazione per il più infamante dei reati sportivi. Avrei invece capito il valore di un nuovo progetto, di una rinascita dal basso, di una chiamata a raccolta di tutti quanti nel nostro territorio amano il calcio e non vogliono più vederlo infangato. Perchè, in definitiva, il calcio è da sempre uno dei tanti specchi in cui ama rimirarsi il nostro paese e non si puó ridurre a cosa per pochi interessati e per molte interessate scorribande. Sará un caso, ma tutto in Italia si è svuotato insieme, di senso e di popolo. Stadi, sezioni di partito, parrocchie, parchi e piazze. Così oggi l'impressione è che ci restino solo i costi, del pallone, della politica, della chiesa e della pubblica illuminazione, con un desiderio non troppo latente di sopprimerli come cosa inutile e dannosa, quando invece inutile e dannoso è proprio il senso di separatezza da ciò che è nostro, per abbandonarlo nelle mani di chi lo sente proprio. E allora forse si puó perdere un po' di tempo anche parlando di pallone.

martedì 16 agosto 2011

2 finanziarie per uscire dalla crisi (con i piedi in avanti?)

Agli albori della crisi serpeggió quasi una qualche soddisfazione a sinistra.
Derivava dalla sensazione della ragione postuma, dalla conferma dei propri dubbi, ma soprattutto dall'idea che il crollo delle borse mondiali seguito allo scoppio della bolla immobiliare avrebbe spazzato via 30 anni di neo liberismo.
Era d'altronde tutto un inaspettato florilegio di analisi e dichiarazioni sulla fine dell'economia di carta, sul nuovo primato della produzione e dei suoi attori sociali, sulla necessità di nuovi equilibri interni e internazionali fondati sul politico a scapito dell'economico.
Tre anni dopo siamo frastornati da una doppia manovra finanziaria che avrà l'unico effetto di deprimere ciò che resta del nostro mercato interno e della crescita del paese, determinata nella sua presunta urgenza e necessità dalla turbolenze di mercati finanziari drogati di liquidità e caratterizzata a latere da interventi ideologici e punitivi nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori.
Stiamo parlando di una manovra figlia, nella sua mole di immensa rozzezza, della pochezza del governo italiano e dei furori monetaristi dei vertici comunitari, a partire da quelli della BCE, già responsabile dell'assurdo, recente innalzamento dei tassi di interesse.
Ora, a me pare chiaro che l'attuale panorama economico, non troppo dissimile da quello degli ultimi lustri, al netto delle bolle speculative, sia caratterizzato da una classica trappola della liquidità.
Inefficacia degli interventi sui tassi, se non per le casse degli Stati, depressione dei mercati interni, causata dall'incedere fragoroso della disoccupazione, relativa scarsità globale di mercati esteri, un'enorme massa di capitali immobilizzati in posizione di rendita o di attesa.
Se accettiamo questi presupposti, la soluzione non puó essere altro che politica, ovvero determinata da un doppio intervento sul lato fiscale e su quello della spesa pubblica, finalizzati entrambi a determinare la crescita dell'economia.
Si tratterebbe, in altre parole, di imporre una forte tassazione sulla ricchezza improduttiva, per liberare risorse a favore del ceto medio e medio-basso e soprattutto dell'occupazione, che dovrebbe tuttavia essere direttamente garantita dall'intervento in opere di interesse pubblico.
Stante la situazione italiana, una parte delle risorse aggiuntive andrebbe impegnata nel contenimento del debito pubblico.
Se esistono ragioni serie per opporsi a una simile impostazione, diverse dalla difesa di interessi di ceto e di classe, sarei felice di ascoltarle.
Siamo invece ottusi dal mantra anti-europeista delle istituzioni comunitarie, naturalmente accettato senza discutere in Italia, per cui il centro di ogni nostro problema è da vedersi nel debito pubblico.
Questo da un lato è certamente indice come si diceva dell'incapacità di superare la barriera ideologica che é all'origine della crisi.
Dall'altro tuttavia credo rifletta la totale perdita di ruolo globale dell'Italia, la sua irrilevanza di paese ormai ridotto nei quartieri della prima periferia del sistema mondo. Io non credo sia ignoto nelle capitali europee che la medicina imposta ci porterà alla depressione economica.
Credo che questo sia indifferente, perchè l'unico interesse collegato all'Italia è impedire che i suoi disequilibri di bilancio possano nuocere all'intera area dell'Euro.
Ci si rapporta all'Italia non come ad un possibile protagonista della ripresa e della sua gestione politica, ma come ad un malato infetto da emarginare definitivamente per evitare contagi.
Che il nostro attuale governo, e sotto alcuni aspetti l'intera classe dirigente del paese, accettino senza fiatare una simile impostazione, dirottando l'indignazione popolare sui cosiddetti costi della politica, rappresenta il massimo della loro squalifica.
E forse dovremmo cominciare a chiedere il voto anticipato non solo per liberarci da Berlusconi, ma anche da una logica politica che gode nell'invocare sacrifici, che non vede il futuro, che mentre vede massacrare i ceti popolari, la classe media o ciò che ne rimane, gli enti locali e i simboli della democrazia, non trova di meglio che dichiararsi soddisfatta per l'abolizione di 30 province o invocare il dimezzamento della rappresentanza parlamentare.
In questi giorni abbiamo cominciato a raccogliere le firme per restituire alle cittadine e ai cittadini italiani la possibilità di un rapporto reale coi propri rappresentanti.
Il 17 settembre saremo in piazza con gli amministratori dei nostri enti locali, ridotti ormai a esecutori fallimentari.
Il 1 ottobre ancora in piazza, in una giornata di lotta democratica e di costruzione dell'alternativa, in attesa dello sciopero generale, mai così utile e necessario.
Possono essere piccoli passi, ma da fare a ritmo di corsa, investendoli di ogni energia necessaria.
In gioco non c'è infatti il governo di domani, ma la possibilità stessa che questo abbia ancora una democrazia su cui poggiare.

sabato 30 luglio 2011

La mia Marina

Come tutti i ravennati frequento Marina da ben prima di aver raggiunto l'età della ragione.
Ci andavo poco più che bambino, quando era ancora possibile trovare un parcheggio in una domenica di luglio, ho visto i fuochi sulla spiaggia nelle notti di ferragosto, ho giocato a racchettoni prima che diventassero uno sport, ho visto pochi amici brindare con due birre al prezzo di una e poi valanghe di giovani riempire i nostri bagni, anche se nel frattempo le birre costavano il doppio, quando è nato mio figlio è li che l'ho portato a conoscere il mare.
Mi sono divertito, ubriacato, con e senza secchielli, e tante altre cose.
Credo che chiunque abbia 34 anni e sia nato a Ravenna potrebbe dire di aver vissuto le stesse esperienze e aggiungere ricordi e sensazioni.
Fra le altre cose mi capita di interessarmi di politica.
Questo comporta l'usura di interessarmi di ciò che la politica offre e, mi spiace dirlo, quando impazza il tormentone estivo su Marina mi cadono le braccia.
A Marina c'è casino. A Marina i giovani si ubriacano. A Marina la domenica c'è traffico. A Marina c'è tanta, troppa gente. A Marina mancano poliziotti, vigili e vigilantes.
A Marina la pineta è li dove ovunque in Italia è scomparsa. A Marina è possibile camminare in spiaggia di notte senza fari puntati da guardie e divieti. A Marina famiglie e giovani convivono serenamente. A Marina non ci sono cancelli che chiudono l'accesso al mare. A Marina è ancora possibile andare come si è, senza prima passare al negozio alla moda.
E a me questo piace, come credo a tante e tanti altri, che infatti continuano imperterriti a frequentarla, nonostante divieti incomprensibili.
È giusto che la politica si occupi di verificare il rispetto delle regole sull'inquinamento acustico, partendo dall'ovvia considerazione che una località turistica non è un quartiere residenziale, così come non si puó chiudere un occhio su situazioni conclamate di lavoro nero e evasione fiscale, perché l'economia della riviera non è più da secoli un settore marginale.
Allo stesso tempo sarebbe doveroso individuare un sistema di accesso, sosta e mobilità più razionale di quello esistente.
Poi la politica si fermi. Non le compete stabilire come io debba divertirmi, se possa o meno ballare, barcollare, sciamare, biascicare o gridare.
Non le compete esprimere giudizi di valore sul limite a cui desideri spingere le mie serate, purchè non esca dalla legalità.
Non le compete stabilire quale sia il sano o l'insano divertimento.
Anche perché non c'è nulla di peggiore di una politica che appaia tutta orientata a regolare la vita privata, mentre si dimostra impotente o distratta nell'orientare quella pubblica.
Ci si interessa al divertimento dei giovani quando la disoccupazione giovanile è al 30%.
Pensateci un attimo, e forse scoprirete che un fine settimana in riviera è il massimo a cui le nostre tasche possano aspirare. Per il resto, casa, famiglia, vacanze, c'é tempo.
O forse è finito, e alla fine non ci resterà che il mare d'inverno.

giovedì 21 luglio 2011

Genova per me

Forse è curioso, ma non ripenso spesso alle giornate di Genova 2001, e non certo per non averle vissute.
Ricordo i mesi che le precedettero, trascorsi in riunioni continue, letture iniziative.
Ricordo il 20 luglio, la morte di Carlo, il telefono impazzito, il pullman cambiato 100 volte nella notte, fra chi abbandonava e chi decideva di esserci, scossi entrambi dalla violenza dello Stato.
Ricordo il 21 luglio, il fumo urticante dei lacrimogeni, la fuga dalle cariche, i compagni dispersi, l'attesa angosciata dell'ultimo superstite al punto di raccolta, e poi il sollievo di esserci tutti, più o meno contusi.
E poi lo shock, quello vero, la telefonata di Fabrizio rimasto a Genova, che ci dava notizia dell'irruzione alla Diaz. Non era finita, non erano bastate le cariche, gli spari, la caccia all'uomo.
Ci voleva la rappresaglia, e ancora non sapevamo dei sequestri e della tortura fisica e psicologica.
I poliziotti non saranno mai nostri nemici scrivemmo il giorno dopo, mentre convocavamo in piazza a Ravenna chi c'era e chi non c'era per ritrovarci, denunciare, ricordare che non avremmo mai accettato il gioco cinico di un potere alla ricerca di un'opposizione a sua immagine e somiglianza.
In quell'affermazione stava tutto il nostro coraggio, se é vero che ancora molte e molti di noi provano moti istintivi di paura davanti a una divisa.
Poi venne Firenze, il movimento libero dall'assedio del G8, l'orgoglio di poterci mostrare per ciò che eravamo, ma nel frattempo molte cose erano già cambiate.
Il mondo era stretto nella spirale guerra-terrorismo, l'Afghanistan entrato nella quotidianità preparava l'Iraq, l'Italia già immersa nel suo decennio perduto.
Non lo sapevamo, ma presto il precariato avrebbe cessato di essere una vaga minaccia per diventare condanna di massa per una generazione, mentre già cominciava a mancare una settimana al calendario di troppe famiglie italiane.
O forse sapevamo già tutto, senza riuscire ad afferrarlo fino in fondo, a trasformarlo in politica, illusi, un po', che la politica vera fosse la nostra, quella che rifiuta il potere fino ad ignorarlo, nonostante ci avesse dato segni inequivoci della sua presenza.
Quando tornai da Genova a chi mi chiese cosa pensassi di quelle giornate risposi che la Storia, già dichiarata finita, era ricominciata.
Ne sono ancora convinto, così come lo sono della nostra ragione di allora, della nostra capacità di prevedere l'ovvio, ovvero l'insostenibilità assoluta del neoliberismo.
Purtroppo è sempre vero ciò che si dice del tempo e della politica e agli albori del millennio la nostra visione non riuscì a diventare egemonia.
Oggi siamo immersi nella crisi gravati dal peso del decennio perduto. Ma forse, finalmente, il nostro tempo è adesso.